Come sempre, per l’occasione, la “Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia...
Le "crepe" del contratto di governo e l'ordine sparso del Pd
Il Contratto di governo che Di Maio e Salvini hanno sottoscritto, sommando programmi elettorali diversi con capitoli di spesa insostenibili, sta mostrando sempre più i suoi limiti. Il compromesso doveva necessariamente essere l’anima di tale Contratto. “Do tu des”: io concedo questo a te e tu dai questo a me, e così manteniamo le promesse fatte ai nostri elettorati. Purtroppo, i nodi sono venuti al pettine, com’era prevedibile.
Il Contratto di governo che Di Maio e Salvini hanno sottoscritto, sommando programmi elettorali diversi con capitoli di spesa insostenibili, sta mostrando sempre più i suoi limiti. Il compromesso doveva necessariamente essere l’anima di tale Contratto. “Do tu des”: io concedo questo a te e tu dai questo a me, e così manteniamo le promesse fatte ai nostri elettorati. Purtroppo, i nodi sono venuti al pettine, com’era prevedibile, con la legge finanziaria (il Def), non solo per la bocciatura da parte dell’Unione europea, allarmata dal nostro crescente debito pubblico e dalla fibrillazione dei mercati, ma anche per i continui litigi e incomprensioni tra Di Maio e Salvini circa le cose da realizzare e le risorse da reperire. Per questo l’insofferenza sta crescendo di giorno in giorno.
La testuggine pentastellata
Maggiormente in difficoltà è Di Maio, perché nell’ala più radicale del suo movimento crescono i mal di pancia verso tante cose che invece stanno a cuore alla Lega, come il condono, il decreto sicurezza, la prescrizione dei reati, e ora le grandi e piccole opere quali il gasdotto trans-Adriatico (Tap), che Di Maio ha già dovuto ingoiare (come è successo con l’Ilva di Pomigliano), la Tav e tante altre, tra cui la nostra Pedemontana, opere che il ministro delle Infrastrutture Toninelli, sostenitore della “decrescita felice”, ha in alcuni casi cercato di fermare, sicuro di poter così bloccare la supposta corruzione ad esse legata.
Cresce, però, anche la contestazione nella base del Movimento (bandiere bruciate in Puglia) e il dissenso tra i parlamentari. E crescono sempre più l’irritazione e le minacce verso chi attacca il M5S, come giornali e media, perché i grillini (niente di nuovo sotto il sole) sono sicuri di essere “dalla parte giusta della storia”.
Per richiamare all’ordine i suoi Di Maio, ha evocato (suscitando l’ironia dei social per la citazione “rubata” a Wikipedia) persino la testuggine romana, “formazione da combattimento perfettamente coordinata e compatta perché”, ha detto, solo così si può avanzare verso la vittoria e cambiare la storia (!). Insomma, per usare il linguaggio da prima e seconda repubblica, ha chiesto con i soliti giri di parole la “disciplina di partito”, altrimenti va in crisi il movimento.
Il presenzialismo di Salvini
In tale situazione, Salvini si destreggia e a volte temporeggia, cercando intanto di farsi trovare e fotografare in ogni situazione ed evento, lieto o triste che sia, sicuro di poter contare sulla compattezza di un partito solido, ben radicato nel territorio e, diversamente dagli alleati, in continua crescita nei sondaggi. Gli imprenditori del Nord lo stanno però incalzando, perché finora dalla Legge di Bilancio hanno visto uscire tanto assistenzialismo, pochi investimenti e una riduzione fiscale a favore solo di poche partite Iva. Se avesse i numeri, di sicuro si sgancerebbe dallo scomodo alleato per dar vita ad un governo populistico di destra. Per questo progetto deve però pazientare, accontentandosi nel frattempo di logorare M5S, succhiandogli il sangue e cercando di tenere calma la propria base elettorale con le solite sortite su immigrati, sicurezza, Unione europea, piantando qualche facile bandierina, perché a costo zero, e postando tanti selfie.
L’ordine sparso del Pd
Il Pd, che dovrebbe fare opposizione, non naviga certo in buone acque. Molti sperano che il prossimo Congresso sistemi le cose e individui una linea politica e un po’ più di sinistra che metta in disparte Renzi, il quale però ha ancora i numeri per controllare e “tenere in ostaggio” il partito. Con la IX edizione della Leopolda e l’avvio dei “comitati civici”, Renzi è ritornato sulla scena e non “mollerà l’osso”, potendo contare ancora su molti supporter.
In ogni caso, con la crisi in cui versa il partito, si ha l’ulteriore conferma che la fusione a freddo avvenuta nel 2007 tra Margherita e Ds, ossia tra due culture e progetti politici assai diversi tra loro, non ha mai funzionato appieno. Nemmeno l’ampio consenso elettorale avuto da Renzi alle europee del 2014 è servito a cementare le due anime del Pd. Anzi, anche a causa dell’operato del suo governo, si sono accentuate le divisioni e le scissioni a sinistra. Il clamoroso flop del referendum di riforma costituzionale del 2018 ha fatto il resto, accentuando ancor più nel Pd la confusione e le divisioni. A nostro avviso, il ritentare la riunificazione del partito affidando la segreteria o a Zingaretti o a Minniti o a qualcun altro, non risolverà il problema dell’identità del Pd e di elaborare una linea politica unitaria.
Forse non resterà altro che dare vita da parte di Renzi ad un nuovo soggetto politico “liberale di centro-sinistra”, alla Macron in Francia, e lasciare che le varie anime della sinistra facciano un loro partito. Anche se, per avere un certo successo, questa operazione Renzi avrebbe dovuto farla subito dopo le Europee, quando aveva il vento in poppa, o al limite subito dopo il fallimento del referendum. Comunque vada c’è la seria possibilità che il Pd, o ciò che ne uscirà dal Congresso, lasci campo libero alla Lega e alle sue politiche populistiche di destra per almeno i prossimi 10 anni.