martedì, 01 aprile 2025
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In attesa della Giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo, parliamo di città inclusive con Alberto Vanolo

Professore di Geografia politica ed economica, Vanolo ha scritto il libro “La città autistica”, frutto dell’esperienza professionale e personale

Un padre e un figlio autistico in giro per una grande città, che cosa hanno da raccontarci? Partiamo da questa domanda, apparentemente ordinaria, per sfogliare il libro “La città autistica”, edito da Einaudi, scritto da Alberto Vanolo, e ricordare che il 2 aprile è la Giornata mondiale per la consapevolezza dell’autismo. Vorremmo affrontare il tema degli autismi, che interessa una significativa parte della popolazione, partendo dal (ri)pensare gli spazi urbani come luoghi di partecipazione per tutti alla vita sociale.

Abbiamo posto alcune domande a Vanolo, professore di Geografia politica ed economica all’Università di Torino, per capire come potrebbero essere ripensate le nostre città, anche in relazione ad alcune disabilità, tentando di garantire una maggiore libertà di movimento a chi ha delle difficoltà nella gestione dello spazio.

Tra qualche giorno sarà la giornata mondiale per l’autismo. Lei ha scritto un libro dal titolo “La città autistica”, partendo dalla sua esperienza personale e dal valore politico di includere tutti come cittadini nel vivere dello spazio urbano.

“La città autistica” nasce dall’incontro fra il mio campo di studi, la Geografia urbana, e la mia esperienza dell’autismo come genitore. L’idea è che l’autismo non prenda forma esclusivamente all’interno di menti e corpi, ma abbia a che fare con il rapporto fra le persone e il mondo esterno. Contesti differenti possono cambiare completamente il senso e l’esperienza dell’autismo e, da questo punto di vista, trasformare o ripensare la città è un modo di ripensare l’autismo.

Andando nel concreto, potrebbe indicarci azioni perché la città, come spazio del vivere in comunità, sia accogliente e inclusiva per le persone autistiche?

L’autismo al momento è considerato prevalentemente come una tematica da affrontare in ambito medico o terapeutico. Si tratta di un piano importantissimo, ma ci sono una moltitudine di altre azioni possibili da intraprendere, anche alla scala urbana. Per esempio, nel campo del design, le esigenze delle persone neurodivergenti, con alterazioni nella percezione sensoriale, sono raramente al centro dell’attenzione. Ma vi sono anche questioni di welfare, di servizi sociali e, non meno importanti, questioni di ordine culturale, che stigmatizzano i corpi e le menti atipiche.

Quale dovrebbe essere il salto di scala che la comunità civile dovrebbe fare per passare dall’accettare al renderne parte della vita sociale persone con neurodivergenze?

Ogni caregiver (“colui che si prende cura”, ndr) che vive accanto a persone autistiche disabili – perché non tutte le persone autistiche lo sono – è abituato a cercare, riconoscere o creare spazi quotidiani in cui vivere con tranquillità l’autismo: situazioni “protette” in cui ci si sente relativamente liberi, sicuri e lontani da sguardi giudicanti. Chi ha molte risorse, non solo economiche, ha maggiori possibilità di trovarne; chi ne ha meno, tende a ritrarsi dalla vita pubblica e vivere una dimensione molto privata dell’autismo. Si tratta di un grande problema di giustizia sociale. L’idea di città autistica si riferisce a un salto di scala: non pensare la ricerca di spazi in cui sentirsi appropriati come un compito individuale, ma come una questione politica e collettiva.

Questo cambio di visione potrebbe portare a vivere le città come luoghi più sostenibili per tutti, dove le distanze tra le persone si riducono?

Certamente: il progetto non riguarda esclusivamente chi ha ricevuto una diagnosi. Si tratta di pensare città maggiormente aperte all’incontro con qualsiasi modo di essere atipico, lontano dalla norma, marginalizzato o stigmatizzato. La sfida è soprattutto quella della convivenza con corpi e menti radicalmente differenti, magari inadatti ai ritmi dello studio, del lavoro o del consumo oggi considerati di fatto imprescindibili.

Pensa che potrebbe essere utile utilizzare nella cartellonistica stradale o nei cartellini dei supermercati o nei menù dei ristoranti anche pittogrammi specifici come quelli della Caa (Comunicazione aumentativa alternativa), affinché persone neurodivergenti con difficoltà di linguaggio possano avere una loro autonomia sociale?

Penso non sia il cuore del problema, ma penso siano apprezzabili manifestazioni di sensibilità. Ci sono molte esperienze che stanno prendendo forma, anche solo perché il mercato intravede possibilità di profitto. Ma, al di là di questo, penso sia un modo, fra i molti possibili, di riconoscere che ci sono persone che si muovono, ragionano o comunicano in maniere differenti.

È ben noto che alle persone autistiche piacciono gli spazi piccoli e controllabili. Una buona prassi che suggerirebbe a un amministratore locale per migliorare la qualità della vita nello spazio urbano?

Non è sempre vero che le persone autistiche hanno una preferenza per spazi di questo tipo. Immagino che i gusti e le esigenze delle persone autistiche o neurodivergenti non siano meno vari di quelli delle persone neurotipiche; quello che spesso accade è che la percezione sensoriale è molto amplificata, rendendo alcuni ambienti, come quelli molto confusi o rumorosi, più difficili da affrontare. Penso che un amministratore locale attento a questi temi potrebbe prendere in considerazione l’idea che non ci sia solo una tipologia ideale di abitante, ma vi siano minoranze che hanno bisogno di accorgimenti e spazi protetti. Per esempio, è oggi comune in occasione dei grandi eventi, per esempio concerti o fiere, prevedere spazi di decompressione e “rifugi” sensoriali: il loro costo è davvero ridotto e si mostra apertura alle esigenze di chi è neurodivergente. Più in generale, si tratterebbe di avviare una riflessione su come costruire città sempre più aperte all’incontro con la differenza. Ma, soprattutto, un amministratore dovrebbe coinvolgere le persone neurodivergenti stesse: molte di loro hanno elevate capacità riflessive, esigenze e domande politiche molte chiare.

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