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Verso quale parrocchia?

La ricchezza delle nostre parrocchie sta nella loro “debolezza” o “povertà”, nella loro apertura a tutti
16/01/2025

Di per sé, l’idea di una “conversione missionaria” della parrocchia non è una novità, perché essa agita la Chiesa italiana da diversi anni. Già nel 2004, la Conferenza episcopale con la “Nota pastorale”: “Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia”, ribadiva la necessità, di fronte ai grandi mutamenti sociale e culturali in atto, di avviare una conversione missionaria delle parrocchie affinché esse non rimanessero ai margini della vita della gente. Aggiungendo che, nonostante si parli sempre più di fine della “civiltà parrocchiale” e del venir meno della parrocchia come centro della vita sociale e religiosa, tuttavia essa non era avviata al tramonto (n. 1-2).

Un modello che non c’è

In questi anni non sono certo mancati tentativi di analisi e di lettura sulla vita e sul futuro della parrocchia (a volte suggestivi e fascinosi). Molto sul piano ideale e lessicale (parrocchia “liquida”, “territori esistenziali”, “comunità di élite, “servizio pubblico religioso”, ecc. ) e poco o quasi niente su quello delle declinazioni pratiche attuabili. Per questo, mi sembra che alcune considerazioni presenti nel nostro libro siano abbastanza realistiche e facciano maggiormente i conti con la situazione concreta della nostra gente che “abita” e partecipa - seppur in modo differenziato e meno intenso rispetto un recente passato - alla vita delle comunità. A detta di Enzo Biemmi, il loro lavoro di ricerca, che muoveva dalla pretesa un po’ ideale di accompagnare la transizione da un modello “tridentino” di parrocchia a un modello “missionario”, ha dovuto fare i conti con la realtà, ossia con la complessità, le fatiche e le resistenze delle comunità cristiane. Al punto che si è resa necessaria in loro una conversione rispetto gli intenti originari: “Siamo usciti dall’immaginario che si tratti di trovare in fretta un nuovo modello di parrocchia, che sostituisca quello tridentino. Abbiamo capito che si è aperto un tempo lungo, che deve rinunciare ad avere un modello”.

Una transizione complessa

La parrocchia “isolata”, di tipo “tridentino”, intesa come la coincidenza con un territorio, un parroco e una pastorale sacramentale consolidata da secoli, in Italia sarebbe ormai quasi scomparsa da tempo, per lasciare posto a una grande diversificazione di comunità, a seconda dei contesti cittadini, rurali, geografici, aggregativi, culturali. Tuttavia, sembra che il tanto auspicato modello missionario di parrocchia non solo non esista ancora, ma non si sappia bene che cosa voglia dire concretamente. Siamo, dunque, nel passaggio o nella transizione “da un modello che non c’è più, anche se ce ne sono ancora le tracce, a un modello immaginato che non c’è ancora, che non possiamo programmare e attuare, anche se ce ne sono già i germogli”. D’altra parte, sia a livello religioso che sociale e culturale, viviamo una tale situazione di fluidità e complessità che sarebbe quasi impossibile definire e imporre un modello definitivo di parrocchia.

Realisti ma sempre in cammino

Di fronte a queste constatazioni alcuni cristiani, attaccati alla forma tradizionale di parrocchia e di trasmissione della fede, potrebbero anche essere indotti a rallegrarsi e convincersi ancor più che è meglio star fermi su ciò che è sicuro, piuttosto che rischiare.

Rimane, però, il problema che le nostre parrocchie, così come sono impostate, sono in grande sofferenza e debolezza, per cui molti sentono la necessità, non meglio definita, di cercare e avviare forme nuove di annuncio della fede e di dar vita a comunità capaci di incontrare, accogliere e attrarre. Per onestà, occorre dire che nelle nostre parrocchie, seppur fondamentalmente di stampo tridentino, non sono mancati e non mancano tentativi di apertura, sperimentazioni pastorali di tipo missionario, percorsi di evangelizzazione e di primo annuncio per coloro che sono “sulla soglia” o “lontani”.

La ricchezza delle nostre parrocchie sta nella loro “debolezza” o “povertà”, nella loro apertura a tutti e nella fragilità di ogni progetto e tentativo di ripensarsi e rigenerarsi. In un mondo che cambia velocemente può anche essere facile immaginare, ma è molto difficile stabilizzare qualcosa. Per questo il camminare e lo sperimentare (insieme) nella speranza - come ci invitano a fare il Cammino sinodale e il Giubileo - potrebbe essere ancora la categoria pastorale più realistica e meno frustrante. Fermo restando che le nostre parrocchie, seppur prese da una certa ansia missionaria, non potranno mai rinunciare alla loro vocazione di “servizio pubblico religioso” e di socializzazione. Rimane sempre vero e attuale quanto diceva papa Giovanni XXIII: “La Chiesa è come la vecchia fontana del villaggio, che disseta le varie generazioni. Noi cambiamo, la fontana resta” e continua a offrire gratuitamente l’acqua a tutti, lasciando liberi tutti di andare e venire.

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