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Uscire dal carcere per lavorare: intervista con il direttore della casa circondariale di Treviso, Alberto Quagliotto

“Il lavoro, anche per una persona libera, è espressione delle potenzialità personali, è educativo, perché impone di assumersi delle responsabilità verso se stessi e verso il prossimo”. A dirlo è Alberto Quagliotto, direttore della Casa circondariale di Treviso, con il quale abbiamo affrontato il tema del lavoro per le persone detenute.
In particolare, abbiamo cercato di capire come funzionano alcune disposizioni di lavoro esterno, come la semilibertà e le misure governate dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario.
In primo luogo, quali sono le differenze fra le due misure?
La semilibertà viene concessa dal Tribunale di sorveglianza e ha margini più ampi rispetto al lavoro esterno. Le persone detenute in regime di semilibertà possono uscire per andare a lavorare, ma anche per svolgere tutta una serie di attività utili al loro reinserimento in società, poi tornano a dormire in carcere. Chi esce con l’articolo 21, invece, può solo lavorare e poi tornare in carcere. Questa ultima misura è autorizzata dal direttore del carcere, ovviamente seguendo tutta una serie di indicatori. Chi usufruisce di queste misure risiede in un’area a parte del carcere, staccata dal resto.
Che caratteristiche deve avere una persona, per godere di questi regimi?
Chi lavora fuori deve avere una sentenza che attesti di non essere socialmente pericoloso e deve dare sufficienti margini di affidabilità. Deve, inoltre, dimostrare di reggere gli obblighi lavorativi. In generale, il lavoro è un’opportunità preziosa, è espressione delle qualità valoriali di una persona, mette di fronte alle proprie responsabilità, ma è anche un modo per trovare riscatto, tutela la dignità della persona e della sua famiglia.
Vista l’importanza di questa misura, e anche il continuo sovraffollamento delle carceri, compreso quello di Treviso, quanti detenuti usufruiscono di queste misure?
Non è semplice. A Treviso, nel momento in cui parliamo, ci sono 241 persone detenute (su una capienza di 132 posti, questo numero parla da sé, ndr). Ci sono 13 persone che escono per lavorare, ma non possiamo raffrontare questo numero al totale dei detenuti. Infatti, può usufruire di queste misure solo chi ha già ricevuto una condanna definitiva, in questo caso parliamo di 173 persone all’interno della casa circondariale di Treviso.
13 su 173 sono comunque pochi...
Sì, è vero, ma bisogna considerare tante cose, bisogna che tutte le disposizioni di legge siano soddisfatte, e, poi, trovare un datore di lavoro, valutare che sia affidabile, inoltre, c’è il giudizio della direzione del carcere, che viene dato in base al profilo della persona condannata: è necessario accertare che ci sia in atto un percorso trattamentale rieducativo. Se non ci sono segni significativi di un percorso intrapreso, non è possibile esprimersi a favore della misura.
Allora come si conciliano le regole, giustamente, stringenti, sul lavoro esterno e la semilibertà, con l’importanza di un impiego per cambiare le prospettive di vita di una persona detenuta?
Diverse persone lavorano all’interno del carcere, o meglio, lavorano per il carcere. Qui ce ne sono 46, tra caregiver, cuochi, personale di pulizia, manutenzione e servizi interni. Anche a loro, se si ritengono affidabili, è possibile applicare l’articolo 21, in modo tale che lavorino non solo nell’area detentiva, ma anche negli uffici. Inoltre, c’è la cooperativa Alternativa Ambiente che si occupa, da un lato, all’esterno, del reinserimento di ex detenuti e persone affidate in prova ai servizi sociali, cioè di pene alternative al carcere, e all’interno fa lavorare 10 persone detenute, nella fungaia, nel laboratorio di riciclo tappi e nel servizio di digitalizzazione dei documenti.
Così si amplia la platea delle persone detenute che lavorano?
Sì, ma il vero problema è che non ci sono abbastanza commesse. Viste tutte le difficoltà nell’applicare le misure di lavoro esterno, sarebbe fondamentale ampliare l’offerta di lavoro interno, ma la disponibilità è sempre molto scarsa.
Oltre al lavoro esterno, si parla tanto di misure alternative al carcere, anche per dare ossigeno a strutture sempre più sovraffollate, nelle quali le condizioni di vita delle persone detenute sono deteriorate dalla fatica della convivenza a stretto contatto tra criminali comuni, persone con problemi psichiatrici, tossicodipendenti... Il nostro ordinamento è troppo carcerecentrico?
In realtà, lo è parzialmente, poiché l’impianto generale penalistico, prima di arrivare alla pena detentiva, concede molte possibilità. La realtà è che ci sono persone per cui è difficile prevedere delle misure alternative al carcere. Da questo punto di vista, credo sia ancora troppo poco valorizzata la prospettiva proposta dal ministro Carlo Nordio nel decreto legge 92 del 4 luglio 2024, che prevede strutture residenziali per i detenuti problematici, che non sono pochi. Si tratta di strutture che garantiscano la possibilità di lavoro e reinserimento sociale per persone con problemi di dipendenze, di salute mentale, o che non hanno un domicilio idoneo a usufruire della detenzione domiciliare. Le strutture, devono garantire la riqualificazione professionale e il reinserimento delle persone, rispondendo a bisogni specifici di formazione e avviamento al lavoro. Così, si drenano le persone più problematiche dall’interno delle strutture carcerarie. Per questa prospettiva sono state stanziate delle risorse, per cui penso che sia una strada da perseguire e attuare.
All’interno dell’attuale casa circondariale di Treviso, c’è la possibilità di fare sport?
Abbiamo appena terminato i lavori di riqualificazione del campo da calcio regolamentare, ora stiamo cercando di costruire una squadra. Lo sport è un altro tassello importante, perché insegna il rispetto e la correttezza.
In ultima battuta, abbiamo parlato dell’importanza del lavoro, delle misure alternative alla detenzione, di progetti per avviare un percorso rieducativo della persona detenuta. Tuttavia, spesso l’opinione pubblica, quando ha notizia dell’applicazione di tali misure, reagisce con indignazione, sgomento e rabbia, arrivando ad auspicare pene che non finiscano mai...
Attorno al carcere e al suo funzionamento ci sono due posizioni estreme, una che si potrebbe quasi definire una mistica delle vittime di una iniqua società, e, dall’altra parte, quella che afferma che se sei in carcere non dovresti uscirne più. Come tutti gli estremi, sono entrambe prospettive sbagliate. Chi ragiona in questo modo non conosce la realtà carceraria. Nella realtà, come insegna anche l’antropologia cristiana, bene e male coesistono e vanno affrontati, come in tutte le relazioni umane. Solo conoscendo la realtà, si possono avere dei giudizi, che se formulati a priori peccano di irrealtà.