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Censis, la “sindrome italiana” intrappola il Paese. Si sfibra il ceto medio, crescono le questioni identitarie
“Intrappolati nella sindrome italiana”. E’ questa l’immagine-chiave su cui punta il Censis nel suo 58° Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’istituto di ricerca che da oltre mezzo secolo ci propone ogni anno una lettura complessiva della nostra realtà – al di là o, meglio, attraverso le tante indagini realizzate su aspetti settoriali – vede un’Italia che “sente l’affanno del rimettersi in movimento” e allo stesso tempo prova “a muovere l’acqua non solo per galleggiare o sopravvivere, ma anche per muoversi su nuove rotte”.
A frenarla, a intrappolarla – per usare il lessico del Censis – è “l’antico vizio di una scarsità di direzione, di un’assenza di traguardi e di coraggio per affermarli”.
In questo consiste la “sindrome italiana”, in una “continuità nella medietà” che non contempla né “capitomboli rovinosi nelle fasi recessive”, né “scalate eroiche nei cicli positivi”. Sta di fatto che “la spinta propulsiva verso l’accrescimento del benessere si è smorzata”.
Negli ultimi vent’anni, rileva il Censis, il reddito disponibile pro-capite si è ridotto in termini reali del 7% e nell’ultimo decennio anche la ricchezza netta pro-capite è diminuita del 5,5%. Una tendenza insidiosa non solo sul piano economico, perché “all’erosione dei percorsi di ascesa economica e sociale del ceto medio corrisponde una crescente avversione ai valori costitutivi dell’agenda collettiva del passato”.
“Se il ceto medio si sfibra – insiste il Rapporto – fermenta l’antioccidentalismo e si incrina la fede nelle democrazie liberali, nell’europeismo e nell’atlantismo”. Il 66% degli italiani attribuisce ai Paesi occidentali la responsabilità dei conflitti in corso in Ucraina e Medio Oriente e il 71,4% pensa che senza riforme radicali l’Unione europea sia destinata a sfasciarsi.L’astensionismo elettorale ha toccato livelli mai visti prima e “le questioni identitarie sostituiscono le istanze delle classi sociali tradizionali”, assumendo “una centralità inedita nella dialettica politica”.Ma “la rivalità delle identità e la lotta per il riconoscimento implicano l’adozione della logica ‘amico-nemico’”. Ed è così che il 38,3% degli italiani si sente minacciato dall’ingresso dei migranti, il 29,3% prova ostilità verso chi sostiene una concezione differente di famiglia, il 21,8% vede un nemico in chi professa un’altra religione, il 21,5% in chi appartiene a una diversa etnia, l’11,9 in chi esprime un diverso orientamento sessuale.In quella che il Rapporto chiama “mutazione morfologica della nazione”, l’Italia si colloca al primo posto nella Ue per numero di cittadinanze concesse a residenti di origine straniera. Eppure, sempre secondo il Censis, il 57,4% sostiene che l’‘italianità’ sia “cristallizzata e immutabile”, in quanto “definita dalla discendenza diretta da progenitori italiani”, il 36,4% la ritiene “connotata dalla fede cattolica”, il 13,7% l’associa a “determinati tratti somatici”.
Possono anche far sorridere, ma in realtà sono molto preoccupanti, i dati relativi alle conoscenze culturali di base.Per il 5,8% il culturista è una persona di cultura, per il 6,1% Dante non ha scritto la Divina Commedia, per il 19,3% Mazzini è stato un politico della Prima Repubblica, per il 32,4% la Cappella Sistina è stata affrescata da Giotto o Leonardo. Del resto, i traguardi di apprendimento dell’italiano non vengono raggiunti dal 43,5% degli studenti delle superiori, con un picco dell’81% negli istituti professionali.Nonostante tutto, però, “si torna a ragionare di crescita”. Ma “in una società chiusa la crescita o non c’è o è drammaticamente lenta”.Viceversa “lo sviluppo economico, sociale e del benessere personale, matura e diviene concreto nelle società capaci di aprirsi al nuovo, di spezzare il recinto”.
Certo, sottolinea il Censis concludendo le “considerazioni generali” del Rapporto, “una società aperta porta con sé dei rischi”, “rischi che al momento la nostra società non sembra disponibile ad assumersi, ma che, allo stesso tempo, non può permettersi di non correre, se vuole crescere e non più galleggiare”. Dopo un così lungo tempo trascorso nell’attesa, cullati dalle false certezze della sindrome italiana, “bisogna prendersi il rischio di andare oltre”.