Come sempre, per l’occasione, la “Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia...
Il benessere perduto dei giovani-adulti
Il terzo decennio evolutivo viene chiamato il “decennio della definizione” perché è il momento propizio per rifinire ad arte l’educazione ricevuta, raccoglierne il meglio con gratitudine e prendere le consapevoli distanze dagli errori compiuti dagli educatori incontrati. Non è adolescenza e non va confusa con essa: gli adolescenti sono minorenni, devono vivere con i genitori e devono stare alle regole, purché ci siano, della comunità educante.
Bambini nel primo decennio della vita, adolescenti nel secondo e infine giovani-adulti nel terzo. L’età propriamente evolutiva dell’essere umano copre il più lungo arco di tempo delle crescite in natura perché la posta in gioco è la più grande: costruire un essere umano, una persona, la creatura a Sua immagine e somiglianza.
In particolare il terzo decennio evolutivo viene chiamato il “decennio della definizione” perché è il momento propizio per rifinire ad arte l’educazione ricevuta, raccoglierne il meglio con gratitudine e prendere le consapevoli distanze dagli errori compiuti dagli educatori incontrati. Non è adolescenza e non va confusa con essa: gli adolescenti sono minorenni, devono vivere con i genitori e devono stare alle regole, purché ci siano, della comunità educante.
Il giovane-adulto, invece, è maggiorenne e ha il diritto-dovere di diventare se stesso, distinguersi da chi l’ha generato, trovare la propria strada e percorrerla assumendosene tutte le responsabilità. È un processo personale e sociale assolutamente graduale, ma non per questo non visibile concretamente. Con lui la famiglia d’origine c’è ancora, ma stavolta per sostenere l’impresa, poiché sostituirsi a un giovane-adulto significherebbe fare di un figlio sano un inetto alla vita. Ed ora? Come definirsi e prendere la propria strada in tempi come questi? Se l’impatto sanitario del covid è evidente e affatto trascurabile, cominciano a emergere i primi dati autorevoli sulle altre conseguenze.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, ad esempio, oggi il maggior rischio depressione (non tristezza, de-pres-sio-ne!) riguarda in Italia proprio i giovani dai 18 ai 35 anni poiché rispondono in modo significativo, molto più dei bambini e degli anziani, a queste domande: trovo difficile affrontare i problemi importanti della mia vita; mi sento particolarmente ansioso; mi sento piuttosto solo; mi sento spesso/sempre giù di morale. Nel complesso insomma, fra i ventisette paesi censiti dall’Oms, l’Italia è purtroppo risultata terzultima quanto a benessere mentale, davanti solo a Grecia e Polonia.
In pratica, nonostante il virus abbia provocato il maggior numero di vittime fra gli anziani, le persone avanti con l’età se la caverebbero meglio emotivamente, perché hanno già vissuto, lavorato, amato e a loro basta, giustamente, non ammalarsi e poco più. Ma un giovane che ambisse a una vita da pensionato sarebbe già morto dentro di altro, per cui ci è chiaro il monito di Cesare Pavese che nel “Mestiere di vivere” scriveva che la vera disperazione non è non avere nulla, ma non attendere nulla. Sia dunque seriamente compreso che la deprivazione relazionale cui siamo sottoposti mette a rischio la salute antropologica di tutti, soprattutto quella dei giovani che dovrebbero essere attaccati alla vita più che al computer.