martedì, 22 aprile 2025
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XXIX Domenica del Tempo ordinario: Quel che è di Cesare, quel che è di Dio

“Al commento di questa domenica ha contribuito un confronto con i componenti della segreteria del “Forum di Limena” a cui partecipo, un gruppo di cristiani del Nord Est, laici e laiche, preti, religiosi e religiose che dal novembre 2018 si incontrano a Limena (Padova) per riflettere insieme sulla situazione del Paese e delle Chiese Trivenete nell’attuale contesto sociale, politico e religioso. Ringrazio per la ricchezza dei contributi emersi”

Siamo ancora all’interno della polemica con le autorità religioso - culturali di Gerusalemme, che si concluderà con i discorsi sulla fine del tempo e con l’esecuzione di Gesù. L’attuale dibattito vede protagonisti alcuni del gruppo dei farisei, promotori di un’osservanza rigorosa delle leggi che garantivano l’alleanza di Israele con Dio, e i sostenitori del re Erode Antipa (figlio di Erode il Grande, re alla nascita di Gesù).

Una tassa controversa. La “trappola” «per coglierlo in fallo» riguarda stavolta il tributo da pagare all’imperatore romano, che occupava la Palestina con il suo esercito. Di fatto la politica romana nei confronti dei popoli e dei territori conquistati non imponeva grandi cambiamenti nelle consuetudini civili e religiose, rispettando anche alcune forme di autogoverno, come il Sinedrio di Israele, il consiglio composto da sacerdoti e anziani autorevoli. Ciò che si richiedeva, oltre all’accettazione della dominazione imperiale senza causare disordini o sommosse, era il pagamento di imposte che contribuivano soprattutto al mantenimento dell’esercito e dell’amministrazione dell’impero, inclusi lavori pubblici come strade, acquedotti... Nell’Israele di allora c’era chi accettava tale imposizione tributaria senza troppe resistenze e chi vi si opponeva disposto anche ad usare la forza (gli zeloti in particolare). Il “trabocchetto” architettato dagli oppositori vuol mettere Gesù di fronte al rischio di essere giudicato filo - romano, e quindi non fedele alla signorìa di Dio sul suo popolo, oppure filo - zelota, e quindi denunciabile ai romani.

Una risposta che mette in questione gli avversari. La risposta di Gesù smaschera l’intento di chi gli pone la questione e coinvolge direttamente gli interlocutori: «Mostratemi la moneta del tributo», con la richiesta di attribuirla a chi l’ha emessa, convalidandola con la sua autorità, cioè l’imperatore in carica. Da qui tira le conseguenze: “Dal momento che possedete quel denaro, dimostrate di fatto di accettare ciò che quel denaro comporta, cioè il dominio di Cesare”, che se da un lato è presenza di occupazione, dall’altro rende possibile i commerci e la stessa esistenza di Israele come popolo, sempre minacciato da vicini ben più potenti di lui, i quali tante volte l’hanno schiacciato con ben maggior violenza di quella che i romani avevano usato, almeno fino ad allora. «Rendete a Cesare quel che è di Cesare», rendetegli ciò che di fatto già gli riconoscete. Ma questa affermazione non chiude la questione, Gesù rilancia: «e a Dio quel che è di Dio». A quell’«e» gli esegeti riconoscono la forza di un “ma” (come già affermava Pasolini in “Scritti corsari”...): come a dire, ricordatevi che se il dominio di Cesare riguarda alcune regole del convivere (e della forza che lo garantisce e lo regola), dall’altra il Regno di Dio si estende all’intero creato: è la sua immagine ad essere presente in ogni uomo e donna. Va quindi ben oltre ciò che Cesare può esigere, coinvolge la persona fin nelle profondità del proprio cuore: Cesare non può essere concepito come Dio, e Dio non può essere concepito come Cesare.

Per noi, oggi. Alcune considerazioni venendo a noi e a questi nostri tempi, dopo secoli di relazioni varie e di diversi modi di prevalere fra Cesare e Dio, che hanno coinvolto profondamente l’istituzione - Chiesa. L’immaginario più diffuso è che si tratti di due mondi separati, quello “profano” e quello “religioso”, posti su un piano di relativa parità, quasi simmetrici, ognuno con proprie leggi che è bene non interferiscano reciprocamente. E spesso, come cristiani, ci si è “rifugiati” in un “lasciare a Cesare quel che è di Cesare” illudendosi così di “occuparsi delle cose di Dio”, spesso ridotte a un culto separato dalla vita e a una vita “interiore” di fatto separata dal “mondo”. Invece, nella risposta data da Gesù si prospetta non tanto una logica “sottrattiva” (“togli a Dio quel tanto che bisogna dare a Cesare”, cioè al vivere in questo mondo, e “togli a Cesare quel tanto che devi a Dio”, cioè il senso del vivere, il culto) ma una logica “generativa”. Nel senso che questa relazione tra Cesare e Dio prima di tutto riconosce una “dignità di esistere” non solo a Dio, ma anche a Cesare. E chiede una relazione dinamica, non risolta una volta per tutte: un conto è rapportarsi come cristiani con una forma di Stato democratica, un conto è farlo con una dittatura. E inoltre, chiede mediazioni intelligenti e capaci di valutare e costruire con altri il “bene comune”, cioè il maggior bene possibile per tutti.

Nella storia recente del nostro Paese vi sono stati cristiani che con competenza grande si sono occupati della “sfera di Cesare” contribuendo a rinnovarne la forma e la struttura, esempi fra i tanti: il contributo decisivo offerto all’elaborazione della Costituzione della Repubblica italiana, e alla strutturazione di un welfare capace, finché lo si è implementato con rigore, di prendersi cura di tutti i cittadini a partire dai più fragili. Un “lievito” che ha contribuito in modo decisivo a far crescere un “pane” maggiormente condiviso fra tutti. E noi, oggi, quale cura per il bene comune vogliamo vivere nelle nostre scelte quotidiane, personali e come Chiesa?

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