martedì, 01 aprile 2025
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III domenica di Quaresima: Il passo dell’avere cura

Pellegrini di speranza verso Pasqua

Il terzo passaggio del nostro “pellegrinaggio di speranza” verso Pasqua è “il passo dell’aver cura”.

Il brano proposto accosta due parti: una prima che ha a che fare con due “fatti di cronaca” (vv. 1-5), la seconda costituita, invece, da una parabola (vv. 6-9).

Minaccia di morte o chiamata alla conversione? Gesù prende lo spunto da due eventi, che hanno causato la morte di alcune persone per rilanciare il volto di Dio che lui ha sperimentato e le conseguenze che da quel volto nascono (vedi anche Rm 2,4). Nel primo caso si tratta di una “strage sacrilega”, nel secondo è una classica “disgrazia”. La domanda sottintesa è la stessa: “Ma perché Dio permette queste cose? Che colpa ne avevano quelli?” Come già detto altre volte, la mentalità del tempo (e spesso anche la nostra...) legava “disgrazie” e “punizione divina”, e giustificava il lamentarsi con Dio dell’ingiustizia che ai nostri occhi l’accaduto rappresenta. Gesù afferma con decisione che “Dio non è così”: non è colui che castiga con la morte, magari sulla base di colpe nascoste (vedi la domanda dei discepoli davanti all’uomo nato cieco in Gv 9,1-2), per cui chi è stato vittima di tali “disgrazie” va anche considerato colpevole davanti alla comunità (“se l’è meritata!”). Piuttosto, fin dentro simili fatti, che avvengono inaspettatamente, va riconosciuta una Parola che ci viene rivolta: convertitevi, altrimenti “perirete tutti allo stesso modo”. Ovvero, morirete con il rischio di non aver accolto la chiamata a quel cambiamento di vita che l’avvicinarsi del Regno di Dio rende urgente. In Gesù e nel suo agire si manifesta il “venire” della presenza di Dio, e si rivela come “tempo di misericordia”, donato in abbondanza ad ogni uomo e donna: approfittatene! fatene tesoro! cambiate vita!

La scelta di “aver cura”. E’ il senso della successiva parabola del fico. Di fronte a tre anni infruttuosi, l’albero può essere ormai considerato incapace di portar nuovamente frutto, per cui va tagliato, perché non sfrutti inutilmente il terreno, sottraendo risorse ad altri alberi. Il contadino, tuttavia, propone ancora “un anno di misericordia”, in cui riservare una cura particolare per quella pianta, perché la speranza che porti ancora frutto possa avere un’ultima opportunità. Amore sapiente di chi conosce bene alberi e campagne, e sa che talvolta tempo e cura possono rigenerare anche piante che sembrano ormai senza vita, e vale la pena di donar loro ancora un po’ di attenzione...

Convertirci a un Dio che continua a sperare in noi. Quanto abbiamo ascoltato ci interpella a un doppio livello. Il primo, a convertire sia la nostra visione di Dio sia, di conseguenza, la nostra vita. Siamo nuovamente chiamati ad aprirci al volto di un Padre che ci ama, disposto a continuare a donarci misericordia nella speranza - la sua! - che noi l’accogliamo, e a uscire così dall’angoscia per la nostra sorte, angoscia giustificata se questa fosse nelle mani di un giudice senza pietà, e pure ad abbandonare il nostro giudizio sulle disgrazie altrui. Ma soprattutto, ed è il secondo livello, grazie a quella misericordia siamo provocati a prenderci cura della nostra pianta e dei frutti che potrebbe ancora una volta portare. E della pianta delle nostre comunità, anche se la vediamo, a volte da troppo tempo, non essere così ricca di frutti da condividere. Diventa, così, chiamata a responsabilità, responsabilità di cura che si esprime in tanti modi, a seconda delle nostre capacità e dei ruoli che ci possono essere affidati. Ascolto di chi è solo, accompagnamento di chi è fragile, condivisione di fatiche e di gioie, aiuto concreto che sostiene la dignità dell’altro, dell’altra... ma anche promozione del riflettere e dell’agire condiviso per la crescita del bene comune di tutti, valorizzazione delle capacità, dei doni, delle ricchezze nella diversità di ciascuno di ciascuna, come comporta il cammino sinodale. A ciascuno e a ciascuna il chiedersi come far fiorire nuovamente la pianta che ciascuno ciascuna è, ma anche l’ “albero della comunità”.

Tutto ciò immerge radici nella speranza stessa di Dio: se lui è tanto appassionato, e tanto crede alla possibilità che noi portiamo frutti di vita da inviare perfino il suo Figlio, l’Amato, a coltivare e aver cura ancora e ancora di quel che siamo, come non lasciarci a nostra volta coinvolgere nella stessa speranza, fondata sul suo amore? Ancor più in quest’ “anno di grazia” giubilare, pellegrini di speranza in gesti di cura e di reciproca attenzione. (Bruno Baratto)

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