Come sempre, per l’occasione, la “Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia...
Dante Alighieri, Treviso e la Biblioteca Capitolare
Diversi indizi indicano che il Sommo Poeta, dopo il suo esilio da Firenze, abbia soggiornato anche a Treviso. La Biblioteca Capitolare inoltre conserva alcuni frammenti pergamenacei appartenenti al primo commento alla Divina Commedia composto da Iacomo Della Lana prima del 1328 e dunque a pochissimi anni dalla scomparsa dell'autore
Settecento anni fa, nel settembre del 1321, moriva a Ravenna, Dante Alighieri. Come si sa, mentre era a Roma per un’ambasceria presso il papa, Bonifacio VIII, la fazione dei Neri s’impadronì con la violenza di Firenze, scatenando l’odio contro la fazione avversa, quella dei Bianchi cui Dante apparteneva. E il poeta, accusato falsamente di baratteria, oggi si direbbe di tangenti e di guadagni illeciti, fu condannato all’esilio e alla confisca dei suoi beni, una tristissima usanza molto comune in quegli anni turbolenti.
Da allora il poeta, dopo un tentativo di rientrare a Firenze con la forza con i Bianchi esuli come lui, deluso e infastidito dalla compagnia “malvagia ed empia”, se ne staccò e iniziò a peregrinare per l’Italia, in cerca di accoglienza. I biografi ci informano che si recò in Lunigiana, a Verona, ad Arezzo, ancora a Verona, finendo a Ravenna dove morì per una febbre malarica presa a Venezia. Ma, per noi, la curiosità più viva è se Dante sia stato anche a Treviso. Ormai la critica è convinta di sì. Anche se non ci sono documenti precisi, nelle sue opere alcuni richiami parlano della nostra città in modo esplicito così da stabilire perfino gli anni del suo soggiorno, tra il 1305 e il 1306, periodo in cui Treviso era governata dalla signoria dei Caminesi o da Camino.
Quali sono questi indizi? Il più noto è quello che si incontra nel canto IX del Paradiso, là dove si individua la città con il famoso verso “là dove Sile e Cagnan s’accompagna”. Si dice, giustamente, che questo verso poteva scriverlo solo chi aveva visto con i propri occhi che le due correnti, quella limpida del Sile e quella torbida del Cagnan Grande o della Pescheria, non si fondono subito, ma restano distinte per un bel po’, si accompagnano, appunto, scendendo verso valle.
Il secondo indizio ci viene offerto dal canto XVI del Purgatorio dove un’anima dice a Dante che la corruzione si era diffusa nel mondo e che poche erano rimaste le persone oneste, tra cui, appunto “il buon Gherardo”, cioè Gherardo da Camino, signore di Treviso, morto nel 1307.
Il terzo indizio riporta ancora il nome del Caminese e proviene da un’altra opera di Dante, Il Convivio: “[Poniamo] che Gherardo da Cammino fosse stato nepote del più vile villano che mai bevesse del Sile o del Cagnano, [e che il ricordo del suo antenato non si fosse ancora spento, chi oserebbe definire Gherardo un uomo rozzo?]”. Le lodi fanno pensare a un debito di riconoscenza di Dante nei confronti del Signore di Treviso.
La Biblioteca Capitolare conserva alcuni frammenti pergamenacei di eccezionale valore storico perché appartengono al primo commento completo alla Divina Commedia composto da Iacomo Della Lana prima del 1328, pochissimi anni dopo la morte del poeta. L’autore, nato a Bologna, seguì la famiglia che si trasferì a Venezia, forse per interessi commerciali. Secondo la più recente critica storica, fu qui che Iacomo compose il suo commento, come testimonia la presenza di parecchie parole in lingua veneta. Ecco uno dei frammenti, che presenta il canto XXIII dell’Inferno: “Taciti, soli, sança”. In questo capitolo itende lautore doppo alchune poeti che parole et fabulose de tratar dela pena deli ypocriti liquali ello punisse nella sexta bolgia circa la qual intencione è da savere che si chomo dixe bacone ne la ex posicione deli uocabuli jpocrita siè a dire fictor è çoè”. In questo capitolo l’autore, dopo alcune parole poetiche e fantastiche, intende trattare della pena degli ipocriti che egli punisce nella sesta bolgia nei riguardi della quale bisogna sapere che, come dice Bacone nella spiegazione dei vocaboli, ipocrita vuol dire falso, cioè…”.