Come sempre, per l’occasione, la “Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia...
Attraversare il deserto
Interpretare i “segni dei tempi” è un compito forse urgente e necessario tanto quanto il “farsi vicini”. In una manciata di settimane le comunità cristiane si sono trovate improvvisamente ad affrontare una situazione per certi aspetti simile a quella del deserto per il popolo di Israele: la fatica di trovare la strada giusta, la mormorazione contro i capi, il ritrovarsi intruppati e nell’impossibilità di celebrare il culto. Una gravissima crisi di fede, in cui, però, Israele poco a poco prende coscienza della fedeltà di Dio in quella prova.
Sono stato colpito dalla toccante testimonianza apparsa nello scorso numero di “Vita” a firma di Lucia Gottardello. La disumanizzazione della morte è forse l’aspetto più lancinante dell’epidemia da Covid-19, come hanno documentato anche le strazianti immagini dei camion militari che portano le bare dai cimiteri del bergamasco verso i forni crematori di altre regioni. Le conseguenze dell’emergenza sono ancora incalcolabili, ma già pesantissime. Nel giro di poche settimane, l’umanità intera è stata improvvisamente precipitata in una situazione di paralisi, senza sapere bene come ne usciremo. Non è facile accogliere e leggere nemmeno nella fede questa durissima prova. Eppure, il mistero della Pasqua resta l’unica strada per intravedere la possibile fecondità anche di questo momento e non restare mentalmente “intrappolati” nella palude della paura.
Basta con la «teologia del castigo»
Tra il confuso vociare di queste settimane è rispuntata, puntualmente, la tesi del Dio che castiga, o del coronavirus come “avvertimento” divino. Non è certo possibile, in poche righe, spiegare che il linguaggio del “castigo” non può essere né strumentalizzato, né parimenti facilmente liquidato. Poiché il criterio interpretativo di tutte le Scritture è il mistero pasquale di Cristo, ogni “teologia”, compresa un’eventuale “teologia del castigo”, andrebbe ripensata, cioè riveduta e corretta, alla luce del mistero del Crocifisso risorto. Magari in una solidarietà concreta con l’umanità sofferente, come lascia intendere la figura di medici e infermieri “ministri”, sacerdoti della vita. Di ogni vita umana. Senza confini o etichette tra credenti e non credenti, nella linea della Gaudium et spes, che afferma la profonda solidarietà dei discepoli di Cristo con «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono». Proprio in nome di questa solidarietà vi è la percezione del «dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi ed interpretarli alla luce del Vangelo, in modo adatto ad ogni generazione» (Gaudium et Spes 4).
Ridare fiato alla speranza
Interpretare i “segni dei tempi” è un compito forse urgente e necessario tanto quanto il “farsi vicini”. In una manciata di settimane le comunità cristiane si sono trovate improvvisamente ad affrontare una situazione per certi aspetti simile a quella del deserto per il popolo di Israele: la fatica di trovare la strada giusta, la mormorazione contro i capi, il ritrovarsi intruppati e nell’impossibilità di celebrare il culto. Una gravissima crisi di fede, in cui, però, Israele poco a poco prende coscienza della fedeltà di Dio in quella prova. Una prova estrema che cambia e purifica il rapporto con Dio, rendendolo più “essenziale”. Ecco perché, invece di attardarsi a dibattere sulle Messe “senza il popolo”, viste da alcuni come una smentita delle riforme conciliari, in quest’ora buia forse vi è la segreta attesa che siano i credenti per primi a ridare fiato alla speranza per tutti. Sulle ceneri del tempio distrutto, il profeta annuncia una rinascita per Israele, cioè un cambio di mentalità nei rapporti umani (ed economici). Forse qualche segno lo stiamo già intravedendo anche ai nostri giorni, come testimonia la toccante “lettera dalla trincea” di una voce laica, un medico dell’ospedale Sacco di Milano. Il sanitario non esita a parlare di “grazia” nel vedere come le persone cambiano, diventano più attente e sensibili. L’accorgerci che siamo davvero fragili e vulnerabili e che tutto ci è donato, a partire dal respiro, ci fa guardare la realtà con più gratitudine verso la creazione che ospita la vita, quella «casa comune» che abitiamo e in cui siamo di passaggio.
Una ripartenza da costruire insieme
È in questa prospettiva di speranza che possiamo guardare al “dopo”. La prospettiva, inquietante, di una recessione globale sembra dietro l’angolo, nonostante l’ombrello finanziario dell’Europa. Con quale idea di società e con quale modello di sviluppo economico risponderemo alla sfida della ripartenza? Una buona metà delle nostre comunità cristiane in questi mesi si era impegnata e si stava impegnando nel riflettere su come dare attuazione a “stili di vita maggiormente evangelici”. La grandissima prova che stiamo vivendo ci aiuta forse a dare maggiore concretezza alla ricerca di questi “stili”, andando all’essenziale: il dono della vita e delle relazioni, ma anche un ambiente vivibile, un’economia della condivisione e non dell’accaparramento. Ha scritto il sociologo Mauro Magatti: “Gli storici dicono che le grandi epidemie – insieme alle guerre e alle carestie – hanno la forza di scuotere intere civiltà provocandone la rigenerazione morale e spirituale”. Forse è davvero questa la speranza da coltivare insieme: dopo la grande tribolazione arriverà la ripartenza, che possiamo preparare attraverso una riflessione condivisa sui “fondamentali” del vivere insieme, oltre ai gesti di vicinanza e di solidarietà che già ora condividiamo con la comunità delle donne e degli uomini del nostro tempo.