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Quando i migranti eravamo noi

Il Canada non è solo la terra dei primi passi di Sergio Marchionne, che, da figlio di emigranti abruzzesi, proprio qui iniziò la sua brillante carriera, ma anche il Paese dove molti altri anonimi italiani hanno cercato di costruire un futuro migliore per sé e per i propri figli. Ripercorrere questa storia ci fa ricordare che siamo un popolo di emigranti. E che l’ospitalità e l’accoglienza le hanno sperimentate per primi tanti nostri parenti e amici.

Un anziano indiano in abiti tradizionali passeggia tranquillo lungo la Lake Avenue. Una coppia di giovani pakistani controlla i bambini mentre giocano nel parco. Sono loro gli ultimi arrivati a Stoney Creek, piccolo quartiere (“appena” sessantamila abitanti) di Hamilton, nella regione dell’Ontario. I loro vicini di casa sono invece per la maggior parte i famosi “italo-canadesi”, italiani emigrati in Canada e poi “naturalizzati”, formando quel contesto multiculturale (e secolarizzato) che è l’attuale Canada occidentale. Arrivato qui per una visita a dei parenti, ho colto l’occasione per conoscere un po’ meglio la storia di questi emigranti italiani e capire un po’ di più che cosa vive chi si trova “dall’altra parte”, cioè nella condizione di chiedere ospitalità o rifugio in un altro Paese.
Stando alle statistiche, gli italo-canadesi sono circa un milione e trecentomila persone. Numeri importanti. Alcuni si sentono ancora “ospiti” in terra straniera, altri invece sono più “integrati”. In ogni caso, alle spalle ci sono molte storie, a volte anche dolorose, e non semplicemente un asettico “fenomeno migratorio”. I viaggi in nave degli emigranti italiani appartengono al passato remoto, ma gli effetti di quell’esodo sono visibili ancora oggi.
Le prime due ondate migratorie di italiani, quella tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento e quella del secondo dopoguerra, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, portarono in terra canadese complessivamente oltre cinquecentomila persone. Le cronache dell’epoca raccontano che, salvo eccezioni, in genere erano emigranti molto volonterosi e coraggiosi, ma poco preparati. Nessuna o scarsa conoscenza della lingua inglese o francese, basso livello di impiego lavorativo, quotidiane umiliazioni. Questi emigranti, provenienti da varie regioni meridionali (Calabria, Abruzzo, Molise e Campania), ma anche dal “nostro” Nordest (Veneto e Friuli), si insediarono nelle periferie dei centri di Toronto e Montréal, Vancouver ed Hamilton. Furono i figli e le figlie ad insegnare l’inglese o il francese ai propri padri e madri, che non avevano tempo di andare a scuola. Che cosa li spinse a partire? Qualcuno mise loro “le stelle negli occhi”, come si usa dire da queste parti, per cercare di dare una spiegazione al sogno di una vita migliore per sé e per la propria famiglia.
Oggi le cose sono cambiate. Le nazionalità presenti alla Mc Master University, la grande università di Hamilton, con i suoi circa 40.000 studenti e 15.000 insegnanti, sono la cartina al tornasole di una realtà in grande cambiamento. La maggior parte degli studenti (circa l’80 %) non sono canadesi, ma “asiatics”, come li chiamano qui, in modo pragmatico e senza tante distinzioni. Inoltre, cominciano a pesare gli effetti del rapido sviluppo industriale iniziato negli anni Cinquanta. L’enorme complesso industriale delle grandi acciaierie ha dato lavoro a migliaia di persone, ma ha anche provocato il pesante inquinamento dei magnifici laghi di questa regione. Sono segnali di un modello di sviluppo da ripensare.
Il Canada non è solo la terra dei primi passi di Sergio Marchionne, che, da figlio di emigranti abruzzesi, proprio qui iniziò la sua brillante carriera, ma anche il Paese dove molti altri anonimi italiani hanno cercato di costruire un futuro migliore per sé e per i propri figli. Ripercorrere questa storia mi ha fatto ricordare che siamo un popolo di emigranti. E che l’ospitalità e l’accoglienza le hanno sperimentate per primi tanti nostri parenti e amici. Oggi, i giovani di terza generazione, più che italo-canadesi si sentono semplicemente canadesi, guardando con simpatia (e un po’ di distanza) alle proprie radici italiane. Di fatto vedono l’Italia come un Paese marginale nello scacchiere internazionale e si mostrano preoccupati per atteggiamenti e discorsi che richiamano il passato. Mi hanno chiesto il perché di tanta violenza riportata nelle cronache del Belpaese. Forse la prima mossa giusta è non perdere la memoria collettiva del nostro passato e ricordarci di quanti italiani hanno beneficiato dell’accoglienza canadese, contribuendo allo sviluppo economico e sociale di quella nazione. Cambiare il punto di vista quando si parla di emigrazione è utile. Almeno per non restare legati ai soliti pregiudizi.

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