Come sempre, per l’occasione, la “Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia...
Norme restrittive, ma giuste: la priorità è la tutela della vita
Come devono essere interpretate queste norme? È una domanda che sorge spontanea. Essa rivela una sorta di convinzione: l’applicazione stretta di queste norme fa sorgere grandi ingiustizie. Ma non è questo il caso.
In questi giorni di grave emergenza per il nostro Paese sono state emanate delle norme particolarmente restrittive da parte dell’autorità civile. Allo scopo di prevenire la diffusione del coronavirus è stato stabilito il divieto di accesso “del pubblico ai parchi, alle ville, alle aree gioco e ai giardini pubblici” (art. 1a dell’Ordinanza governativa 20 marzo 2020). Impressiona ancor di più la norma successiva: “non è consentito svolgere attività ludica o ricreativa all’aperto; resta consentito svolgere individualmente attività motoria in prossimità della propria abitazione, purché comunque nel rispetto della distanza di almeno un metro da ogni altra persona”. Senza parlare delle prescrizioni che hanno portato a vietare le celebrazioni religiose, creando turbamento in tanti cristiani delle nostre comunità.
L’applicazione di queste norme, con le relative sanzioni, pure di carattere penale, hanno fatto sorgere molte domande.
Perché un anziano deve essere multato se passeggia per la città? E una famiglia con bambini, perché non può andare al parco per un tempo di gioco, invece di essere costretta in appartamento? Perché non poter far visita ai propri cari in casa di riposo? O permettere ai parenti stretti di assistere il proprio caro moribondo? E per quale motivo impedire che le persone religiose possano esprimere la propria fede nei luoghi abituali della preghiera comunitaria?
Come devono essere interpretate queste norme? È una domanda che sorge spontanea. Essa rivela una sorta di convinzione: l’applicazione stretta di queste norme fa sorgere grandi ingiustizie. Secondo il detto di Terenzio, ripreso da Cicerone “il massimo del diritto corrisponde al massimo di ingiustizia”. Se non si tiene conto delle situazioni e delle circostanze, quella dei giuristi romani ci sembra una valutazione esatta anche per il nostro tempo. Infatti, nel diritto romano non esisteva solo il rigore del diritto, vi si trovava anche la “benignitas”, che era una sorta di comprensione benevola nell’applicazione della norma giuridica. Nel diritto medievale, i giuristi cristiani accoglievano questa interpretazione benevola delle leggi e la chiamavano “equità”: occorre applicare il diritto con “equità”, cioè con un senso di giustizia temperato con la dolcezza della misericordia.
Ma, secondo i giuristi cristiani – e forse la cosa può sorprendere non poco –, le situazioni concrete non sempre richiedono una applicazione benevola delle norme. Talora, infatti, si esige una interpretazione “rigorosa” delle stesse. Quando? In tutte quelle occasioni nelle quali è in pericolo “il bene dell’anima”. In altre parole si deve applicare rigorosamente la legge per evitare di cadere in azioni “peccaminose”, cioè che procurano il male alla persona o alla comunità, lo alimentano e lo diffondo.
Il bene della vita
Nelle condizioni di vita in cui si sta diffondendo la pandemia del coronavirus, che oltre a diffondere velocemente in tutto il mondo un virus che fa ammalare le persone, provoca la morte di molte altre, le norme che limitano gli spostamenti al solo necessario, debbono essere interpretate secondo rigore e non secondo larghezza. Infatti, lo scopo della norma è quella di tutelare la vita evitando il più possibile il contagio e la morte di uomini e donne. La salute è un bene dell’uomo. Non si può calpestare il bene della salute altrui con tanta superficialità come alcuni sembrano fare in questi giorni. Anche nel caso si volesse offrire l’aiuto spirituale a una persona e un tale aiuto mette in pericolo altri che verrebbero contagiati, il cristiano - ancor più di altri - è tenuto a seguire con rigore le prescrizioni civili. Solo in questo modo esprime la misericordia verso il prossimo e si fa promotore di vita. È il caso di dire: “summum ius summa iustitia”, il massimo del diritto applicato con rigore corrisponde il massimo di giustizia per tutti.