Come sempre, per l’occasione, la “Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia...
Dalla paura alla speranza
Una riflessione di carattere antropologico su quanto sta avvenendo. Ci sentiamo insicuri, per questo ansiosi e impauriti. Poi non vediamo la minaccia. Non sappiamo dove sia il pericolo. Non ci è chiaro da chi ci dobbiamo difendere. Non ci sentiamo sicuri neanche a casa nostra. Ma quando il tempo interiore ha presente e passato, ma non avvenire solo la speranza, che è apertura al futuro, ci può salvare.
Siamo ancora qui, così, in stand-by, nell’attesa che qualcosa di buono succeda, che i dati lascino intravedere un barlume di speranza. I sacrifici che stiamo facendo ci sembrano inutili. Non vediamo una fine, figuriamoci se ne riusciamo a cogliere il fine. Siamo sospesi tra la voglia che tutto passi presto, per noi, per i nostri affetti più cari, per gli altri, e il timore che tutto questo non abbia fine, almeno in tempi brevi. E l’ansia cresce, al di là degli sforzi per contenerla. Chi non intravede ora una fine e un fine a ciò che vive rischia il disorientamento, la perdita di motivazione, l’incapacità di stare nella situazione con disponibilità, pazienza e fiducia. Non ci è affatto facile mettere in parole quanto proviamo. Eppure, le immagini di chi soffre e muore da solo, l’esperienza diretta del contagio, il silenzio surreale che ci avvolge, il vuoto delle strade, la distanza fisica tra di noi, l’assenza di tutto ciò che rendeva normale la nostra vita ci toccano nel corpo e nella psiche, ci prendono stomaco e testa, ci disturbano la concentrazione, ci destabilizzano l’umore. Siamo così confusi, disorientati, ovattati. Mai avremmo immaginato questa situazione. Mai avremmo potuto pensare di trovarvici dentro. La paura e l’ansia che ci sconquassano nel profondo sono lì a ricordarci che è maledettamente tutto vero.
Abbiamo perso il controllo, forse per la prima volta in forma così sostanziale, radicale, universale. Coscienti di essere sulla stessa barca, facciamo l’esperienza di non avere in mano le redini della vita e della storia. Non siamo in grado di comprendere e spiegare, programmare e prevedere. Non siamo nelle condizioni di poterci fidare delle nostre risorse e competenze. Siamo e ci sentiamo impotenti. Il nostro protagonismo viene meno. Se non bastasse, il controllo della situazione non ce l’ha neanche chi ci governa e, cosa che percepiamo ancor più grave, addirittura nemmeno la comunità scientifica. Ci sentiamo insicuri, per questo ansiosi e impauriti.
Poi non vediamo la minaccia. Non sappiamo dove sia il pericolo. Non ci è chiaro da chi ci dobbiamo difendere. Non ci sentiamo sicuri neanche a casa nostra, unico luogo dove ci è possibile stare. E anche per questo l’ansia e la paura inesorabilmente crescono. Nel frattempo pensiamo all’oggi, cioè a portare a casa la pelle, alla vita altrui da preservare. Ma a pena si aggiunge pena, se ci proiettiamo nel futuro e con sano realismo guardiamo al domani, alla situazione economico-finanziaria dei mesi prossimi, al lavoro che potrebbe venire a mancare, alla condizione precaria delle famiglie, alla ridefinizione degli equilibri europei e mondiali.
E questo in una condizione di assenza. Abbiamo la nostalgia degli sguardi, degli abbracci, dei baci, delle strette di mano, dei sorrisi di tante persone. Ci manca non solo la possibilità di incontrarci, di respirare all’aria aperta, di dialogare serenamente, di passeggiare in compagnia, ma anche l’opportunità di esprimere nel lavoro la nostra operosità, di raccoglierci in chiesa, di celebrare insieme l’Eucaristia, di radunarci per la formazione, di vivere la prossimità in gesti concreti di solidarietà. Inoltre, intuiamo che, passata questa bufera, la nostra vita non sarà più quella di prima. Non che sia del tutto negativo questo, anzi, il fatto è che non sappiamo che cosa aspettarci dal futuro prossimo. Se quello che non c’è si riaggancia a quel vissuto emotivo, ben strutturato in noi perché primordiale, che è un misto di tristezza e angoscia per la perdita e la separazione, tutto ciò che è nuovo, che non conosciamo né possiamo prevedere, genera ansia e paura, quindi senso di inadeguatezza e incertezza.
Tra paura e ansia
La paura è di per sé sana e utile: ci mette in guardia da un pericolo imminente. Può essere paragonata ad una spia che si accende quando c’è qualcosa che non funziona. Ci segnala che dobbiamo fare attenzione. La paura è funzionale alla nostra sopravvivenza, individuale e collettiva. Giacché siamo vulnerabili e fragili, avere paura è segno di normalità. Soltanto chi è incapace di cogliere, considerare e valutare il pericolo, come il cucciolo d’uomo e l’adulto che rasenta l’onnipotenza, non conosce la paura. Sopravvaluta se stesso e sottovaluta la realtà. Sentendosi invulnerabile, si pensa superiore ad ogni forma di pericolo, non si protegge dai rischi e non si cura delle conseguenze delle proprie azioni sugli altri. Ma se è vero che la paura è in sé sana e utile, è vero anche che quando non è ben gestita, si fa sproporzionata e incontenibile, fino ad assumere forme esagerate e reazioni incomprensibili, al limite anche distruttive.
In questa situazione, la paura e l’ansia si fondono insieme, rendendo a noi tutti il compito della loro gestione ancor più difficile. La paura ha per oggetto una realtà esterna, relativamente circoscritta e definita, percepita come pericolosa, dalla quale ci si deve difendere, sfuggendola, evitandola o eliminandola. L’ansia, invece, è, per così dire, una paura che viene dall’interno. Reazione immediata al pericolo, l’ansia può sorgere in noi per diverse ragioni, tra queste vi è la percezione del sentirsi particolarmente fragili, quindi il timore di non riuscire ad affrontare e gestire la situazione in modo adeguato e con strategie efficaci.
Sia la paura che l’ansia creano una tensione interna. Il disagio che provocano va a toccare le corde del nostro corpo e può palesarsi in reazioni fisiologiche come la stanchezza, il dolore di stomaco, il mal di testa, la fatica di dormire, il tremore, la sudorazione, la tachicardia. A volte, l’influsso di queste emozioni è talmente incisivo da condizionare i nostri processi di pensiero: l’attenzione, la concentrazione, la memoria, la percezione. Può essere che tutto questo stia avvenendo in noi, in una situazione anomala come quella che stiamo vivendo. In momenti di forte stress, ansia e paura possono anche rappresentare un ostacolo a scelte e azioni sensate. A certe condizioni, però, esse possono spingerci al rinvenimento di un senso, ad aggrapparci a significati veri e a dimensioni essenziali della vita, a cercare legami con le persone dotate di una sensibile capacità empatica.
Assunzione e trasformazione
È un mito pericoloso quello che ci fa credere che la vita affettiva, in ogni suo risvolto, possa essere dominata. Gestire significa anche lasciar essere in noi quello che sta accadendo. La gestione delle nostre emozioni si dà talora in un patire accettato. Ora, accettare emozioni come la paura e l’ansia non vuol dire affatto considerare buono ciò che fa male, ma assumere quel sentire come dato esistenziale, cioè farlo oggetto di comprensione perché divenga possibile la sua trasformazione. Anche quando l’ansia e la paura ci feriscono in profondità, ci è chiesto di attraversarle con uno sguardo lucido, standoci dentro, per capire cosa sta accadendo, per darvi un nome, per trovare le vie per il loro affrontamento e orientamento.
La paura e l’ansia le possiamo affrontare con un sano realismo e delle scelte concrete. Le possiamo aggirare con distrazioni di vario tipo o reinterpretare con l’ausilio di informazioni fondate e relativamente sicure. Ci è possibile anche assumerle e orientarle al senso mediante la riflessione, l’elaborazione e la condivisione, con il supporto di quei significati che hanno il potere di aiutarci a trasformarle in patrimonio per la nostra vita e quella altrui. Ciò che conta per davvero è che al termine di questo periodo non torniamo a fare come se nulla fosse accaduto e a rivivere equilibri ormai vecchi e inadeguati per il tempo che ci sta davanti.
L’apertura al futuro
È sul piano dei significati che la paura e l’ansia agganciano la speranza. Quando il tempo interiore ha presente e passato, ma non avvenire, solo la speranza, che è apertura al futuro, ci può salvare. Noi viviamo e la nostra vita ha un senso unicamente quando la speranza apre una prospettiva innanzi a noi. Ma senza un fine non vi è un significato per l’oggi, né un motivo per il domani. Ognuno di noi, infatti, deve poter affidare la propria vita alla promessa di un futuro desiderato e atteso. Tuttavia, non basta attendere, giacché l’attesa senza la speranza genera paura e ansia. La speranza non ci rende dei sognatori in fuga da un presente problematico e insoddisfacente. Al contrario, abbiamo bisogno della speranza per poter stare qui e adesso a questo mondo in maniera adattiva e sensata, sorretti dalla capacità di tollerare le frustrazioni e sostenuti da una motivazione profondamente radicata.
Le speranze e la speranza
C’è la speranza e ci sono le speranze. La speranza è una condizione interiore, uno stato profondo dell’anima, una rappresentazione sentita sufficientemente stabile e durevole. La speranza è relativa al senso (direzione e significato) e al fine ultimo della nostra esistenza. Le speranze, dal canto loro, riguardano i diversi ambiti, le più disparate situazioni e condizioni della nostra vita.
La speranza permette, sostiene e alimenta le speranze, nel momento in cui i problemi, le fatiche e i drammi non lasciano intravedere un avvenire prossimo. La speranza apre le speranze a ciò che si dispiega dietro a quanto subentra all’istante presente, spinge oltre, verso un avvenire più lontano, più ampio, compimento di promesse ulteriori. Se è vero che la speranza è condizione di possibilità delle speranze, è altrettanto vero che le speranze fanno bene alla speranza: la confermano, la rafforzano, la nutrono. Quando le speranze vengono meno, la speranza si incrina, si obnubila e pian piano, al limite, si spegne.
Se la speranza, come promessa strutturata in attesa attiva della realizzazione di un senso ultimo, non viene coltivata continuamente, alla prova dei fatti fa fatica a tradursi nelle speranze, quindi qui e adesso in fiducia, motivazione e tensione ad un avvenire migliore. D’altra parte, però, per alimentare la speranza bisogna dare fiato alle speranze, darsi da fare cioè per creare le condizioni pratiche perché in ciascuna situazione si possa per davvero guardare avanti con fiducia.
Credere di poter vivere e trasmettere la speranza senza preoccuparsi delle speranze, proprie e altrui, significa illudersi e illudere, dissociare se stessi e indurre gli altri ad assumere le più disparate forme di alienazione.
Dono e compito
La speranza, come figura dell’anima, ci apre al mistero. Alla speranza è necessario educarci. C’è da imparare a sperare, seguendo quel cammino che porta all’interno, agli abissi della nostra identità. La speranza, infatti, non alberga se non in una vita animata dalla passione per l’interiorità. Senza di questa non è possibile sperare.
Nella prospettiva della nostra interiorità, la speranza cristiana, in sé del tutto singolare, nasce e si alimenta in noi dall’incontro con il Crocifisso Risorto. Essa non è alternativa alla paura e all’angoscia, ma le riconosce e le assume. Prova ne sia che parte della passione alla quale non si sottrae Gesù, il Figlio di Dio, sta in quella paura e quell’angoscia che sperimenta. Egli non fugge l’una né l’altra. Ed è proprio nella paura e nell’angoscia che egli si affida. Così facendo, Gesù divinizza tutta la nostra umanità, quindi anche le emozioni che ci slogano e destabilizzano. Provare paura e ansia, assumerle e accoglierle per ciò che sono, senza travestirle o fuggirle, ci rende simili a lui. Soltanto così possiamo anche noi, come lui, consegnarci al Padre e affidargli la vita dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. Solamente se abbiamo il coraggio di avere paura, la speranza ci è data in dono.
Ci è chiesto, ora più che mai, di tenere in vita in noi la speranza, perché gli altri possano sperare, sapendo che donare la speranza significa non lasciarla morire in noi.