giovedì, 21 novembre 2024
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Dalla globalizzazione alle banche. Perché il mito del Nordest si è sgonfiato

Piccolo è bello, era il motto. Invece di nanismo si rischia oggi di soffocare tra le erbacce della mancata innovazione tecnologica, di tasse e burocrazia asfissianti, della concorrenza che aggredisce da tutte le parti, dell’incapacità di avere spalle abbastanza larghe per imporsi nei mercati del mondo. Detta così, sembra l’esatta diagnosi della malattia che colpì Venezia e la Serenissima Repubblica dalla metà del Cinquecento in poi.

L’ultimo colpo al cuore, per un Nordest che fino a pochi anni fa si considerava avanguardia economica d’Italia, è stata la cifra attribuita dal cda alle azioni della trevisana Veneto Banca che vorrebbe quotarsi (e così sopravvivere) in Borsa. Pochi spiccioli, qualche centesimo così come le azioni cugine della Banca Popolare di Vicenza, passate dall’irrealistica quota 62 euro a 10 centesimi l’una. Tra Vicenza e Treviso si sono così bruciati in un falò interi patrimoni, si parla di almeno due miliardi e mezzo di euro spariti nel buco nero delle due venetissime banche. Mentre la confinante Popolare di Verona si univa in matrimonio con Milano, ma chiedendo nuovi soldi ai soci, un altro miliardo di euro dal futuro incerto.
Oddio, Verona – legata a doppio filo con la Germania – sta tutto sommato bene, mentre nella Pedemontana veneta è pianto e stridor di denti. Qui tramonta un sogno, si chiude una parabola iniziata negli anni Sessanta e che ha avuto il culmine nei Novanta: quelli appunto del “Nordest”, zona geografica inesistente che – economicamente – partiva dal Garda e terminava tra gli elettrodomestici di Pordenone e gli acciai e le sedie di Udine.

Una gigantesca pelle di leopardo fatta di chiazze di agricoltura pregiata e, soprattutto, di capannoni industriali e artigianali. Un’economia che volava grazie ai distretti industriali, alla possibilità cioè che le aziende migliori avevano di circondarsi di piccole realtà dell’indotto, create da ex operai e artigiani messisi in proprio.
Voglia di scrollarsi la povertà, tante ore di lavoro e tanto coraggio nel cercare mercati per l’Europa, un po’ di evasione fiscale ad aiutare i bilanci, molta diffidenza verso “Roma”, l’odiatissima burocrazia, i “politici”. Qui nacque un leghismo di stampo separatista, comunque una voglia di federalismo e insomma di “facciamo noi, dateci autonomia” che ha condizionato l’intera politica italiana per un ventennio. Fino al Matteo Renzi che sta riportando molte funzioni e risorse dentro l’alveo statale, complice un certo qual fallimento della gestione locale dei trasferimenti statali e un federalismo lasciato a metà strada, né carne né pesce.
Ma se le colpe di una classe dirigente sempre al di sotto delle aspettative non vanno sottaciute (il presidentissimo regionale Giancarlo Galan ha chiuso la carriera tra le aule dei tribunali penali), non è certo stata la politica a far tramontare il leit motiv “Nordest”.

Il declino iniziò in modo totalmente inaspettato, e ci vollero anni per accorgersi della malattia: è ad inizio millennio che trionfa la globalizzazione, la Cina entra in gioco in tutto il mondo, si possono fare scarpe nella Riviera del Brenta così come a Timisoara, nella vicina Romania: ad un terzo del costo, senza tasse, senza sindacati.
E così interi distretti industriali si sono spopolati in un amen. Iniziò il tessile, lavoro ad alta intensità e basso valore aggiunto. Quindi le scarpe delle quali il Veneto era il maggior produttore europeo: oggi rimangono in tutto due-tre aziende di medie dimensioni. Poi il marmo finito in Brasile, la meccanica in Slovacchia, le caldaie nell’Est Europa, gli elettrodomestici pure; il petrolchimico di Porto Marghera in crisi strutturale…
È un fuggi fuggi che distrugge decine di migliaia di posti di lavoro nel manifatturiero, soprattutto tra Pordenone, Treviso e Vicenza. Crisi aziendali continue, cassa integrazione laddove si pagavano gli straordinari, aree industriali dismesse, capannoni convertiti a supermercati. Funziona il commerciale – fioriscono giganteschi centri ovunque –, distruggendo i piccoli negozi di quartiere, di paese. L’occupazione tutto sommato tiene grazie appunto alle botteghe in franchising, al turismo, all’agrindustria. Ma a grippare il motore è stata la grande crisi degli ultimi anni, che ha bloccato il lubrificante di tutto: l’edilizia. Le banche hanno tirato i cordoni della borsa, metà industria del mattone si è squagliata nel giro di quattro-cinque anni. Le imprese più grandi semplicemente chiudono, falliscono; i muratori rumeni tornano a casa; l’indotto soffre.
Già. Il mattone è immobile. Ci sono intere aree artigianali semi-dismesse, fa pena vedere capannoni addirittura abbandonati, soprattutto nelle Basse di pianura. L’assurda urbanistica degli ultimi trent’anni aveva dato il via libera ad un’area artigianale in ogni Comune, addirittura in ogni frazione. Oggi, sono migliaia le strutture che cercano un investitore, che cercano una ripresa che nessuno veramente intravvede e che certo non chiederà capannoni.

Non tutto è perduto, non tutto va male. Comunque i livelli di disoccupazione sono buoni, rispetto alla media italiana (5 punti percentuali in meno). Il Trentino Alto Adige e il Veronese hanno risentito poco della crisi; il Bellunese tiene con il gigante Luxottica e con il turismo; Venezia – oramai una spopolata Disneyland a cielo aperto – fa storia a parte; ci sono realtà che nel frattempo sono cresciute o hanno fortemente diversificato: Renzo Rosso, Calzedonia, Benetton…
Ma la nuova occupazione (quasi tutta nei servizi) è sottopagata: generazione voucher. La nuova imprenditoria è un decimo dei tempi ruggenti, qui era terra di caldaie e macchinari per l’industria, non di tecnologie digitali e microchip. La stessa esternalizzazione è in parte fallita: molti tornano da Romania o Cina, è il prodotto a fare la differenza, non più il solo costo dello stesso.
Solo che non trovano più il Veneto e il Friuli di prima. Le banche o non ci sono più (molte Bcc), o sono state incorporate e quindi “digerite” (Antonveneta, le Casse di risparmio), o sono in grandi ambasce. La Regione aveva una sanità d’eccellenza e un welfare all’avanguardia; ora è il terzo settore a sostenere con enorme difficoltà interi pilastri del welfare locale, i lavori pubblici sono finiti a “Chi l’ha visto?”.

Attenzione: non siamo di fronte ad una tragedia, ma alla fine di un mito, di un sogno anche mediatico. Tanto fieno era stato messo in cascina, il tenore di vita rimane alto, la qualità della stessa pure. Soprattutto, mancano le idee per un rilancio in grande: non potrà essere il successo del Prosecco e dell’Amarone a far ripartire un territorio che, nei tempi d’oro, vantava produttività e redditi ai vertici d’Europa, in linea con Baviera e Baden Wurttemberg.
Piccolo è bello, era il motto. Invece di nanismo si rischia oggi di soffocare tra le erbacce della mancata innovazione tecnologica, di tasse e burocrazia asfissianti, della concorrenza che aggredisce da tutte le parti, dell’incapacità di avere spalle abbastanza larghe per imporsi nei mercati del mondo. Detta così, sembra l’esatta diagnosi della malattia che colpì Venezia e la Serenissima Repubblica dalla metà del Cinquecento in poi. Città all’avanguardia che mercanteggiava con cinesi e arabi; poi i troppi “schei” che tolgono motivazioni, il mondo che guarda altrove, lo sguardo che si abbassa. Quando le calli si svuotarono di residenti, quando le scuole ora chiudono per mancanza di ospiti, è solo dorata decadenza e nostalgia del tempo che fu.

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