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L’esodo degli armeni

L’Azerbaigian ha attaccato lo scorso 19 settembre l’area sotto il controllo armeno del Nagorno Karabakh. L’offensiva si è conclusa in poche ore con la capitolazione della repubblica separatista, dopo un lungo conflitto

Il 19 settembre scorso, l’Azerbaigian ha attaccato l’area sotto il controllo armeno del Nagorno Karabakh. Una piccola area montuosa, grande come una provincia del Veneto, abitata tradizionalmente da una popolazione di lingua e cultura armena. L’offensiva si è conclusa nel giro di 24 ore con la capitolazione della repubblica separatista, mettendo fine alla storia del Nagorno Karabakh come Stato de facto indipendente. Per circa 120 mila persone è così iniziato un esodo di massa verso l’Armenia.

Già a partire dal nome, il Nagorno Karabakh è una regione dalla storia divisa tra culture, religioni ed etnie. Nagorno significa “montuoso” in russo; Kara vuol dire “nero” in turco, e Bakh significa “giardino” in parsi. La popolazione di origine armena preferisce chiamare la regione “Artsakh”, il nome antico armeno.

L’intera regione si estende per quasi tre volte la superficie della repubblica contesa, inserita dentro i confini azeri. Il suo territorio è, di fatto, un’enclave armena cristiana, appartenente però, a livello ufficiale, all’Azerbaigian musulmano.

Per provare a comprendere la questione è necessario fare un salto indietro di circa un secolo, ai primi anni ’20 del Novecento, quando il Caucaso meridionale venne conquistato dal nascente Stato sovietico.

Con una decisione che avrebbe influenzato le dinamiche della regione nei decenni successivi, nella primavera del 1921 le autorità sovietiche assegnarono alla Repubblica socialista sovietica azera il Nagorno Karabakh (per il cui controllo Armenia e Azerbaigian avevano combattuto una guerra tra il 1918 e il 1920, nel breve periodo della loro indipendenza dopo il crollo dell’Impero russo).

Le richieste armene venivano sistematicamente ignorate dalle autorità sovietiche finché, alla fine degli anni Ottanta, la questione del Nagorno Karabakh tornò prepotentemente sulla scena. La perestrojka e la glasnost’ diedero agli armeni della regione e in Armenia lo spazio di manovra necessario per organizzarsi.

Nel dicembre 1991, con la dissoluzione dell’Unione sovietica, la popolazione armena nella regione autonoma si espresse a favore dell’indipendenza dall’Azerbaigian in un referendum boicottato dalla minoranza azera. Visto il rifiuto di Baku di accettare la secessione, la guerra era inevitabile.

In Azerbaigian le richieste di indipendenza degli armeni del Nagorno Karabakh vennero accolte con rabbia e a farne le spese fu la consistente minoranza armena nelle città del Paese.

Ne sono seguite due guerre, con quasi 40 mila morti, costringendo centinaia di migliaia di persone ad abbandonare le proprie case. La questione del Nagorno Karabakh è divenuta, così, uno dei miti fondanti del nazionalismo di entrambi i Paesi.

Nell’autunno di tre anni fa, l’Azerbaigian – divenuto nel frattempo ricco esportatore di petrolio e gas – si lancia alla riconquista della piccola enclave armena, operazione che parzialmente riesce. Sono i russi a dispiegare le proprie truppe su quel che resta dello staterello indipendente all’interno del territorio azero, per garantire il cessate il fuoco, la sicurezza dei cittadini e prevenire ulteriori pulizie etniche. Fino al 18 settembre scorso.

La guerra-lampo non ha colto di sorpresa gli analisti più attenti, perché era dall’inizio di quest’anno che l’Azerbaigian moltiplicava attacchi e provocazioni, bloccando le vie di comunicazione alla provincia ribelle. Nessuno si aspettava, però, un’azione così schiacciante e una debolezza politico-diplomatica dell’Europa e degli Stati Uniti. L’Italia nonostante i legami storico-culturali e religiosi con gli armeni, ha scelto il silenzio, in nome dei contratti commerciali e strategici con l’Azerbaigian che è oggi – dopo la guerra in Ucraina – il nostro secondo fornitore di gas.

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