Come sempre, per l’occasione, la “Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia...
L’inferno dei migranti nel Sahara
Migliaia di persone hanno perso la vita e hanno subito violenti abusi durante i viaggi che dall’Africa orientale e occidentale li portano alle coste del Mediterraneo. Il colpo di Stato in Niger e l’instabilità dell’area sono una conseguenza diretta delle forti pressioni migratorie a cui i Paesi sub-sahariani sono sottoposti, e dove continua il depredamento delle risorse del sottosuolo da parte delle ex potenze coloniali.L’ex colonia francese, settimo produttore di uranio al mondo, ha scelto di puntare sull’appoggio militare del Cremlino per provare a sconfiggere l’insurrezione islamica che, da anni, devasta la regione del Sahel.
Nell’ultimo decennio, l’Ue ha sistematicamente fatto del Niger l’avamposto centrale del suo sistema di governance migratoria in Africa occidentale. Questa politica è stata progettata per bloccare le persone, che altrimenti potrebbero raggiungere l’Europa attraverso la Libia. Ciò ha reso la migrazione più invisibile e pericolosa: i migranti, per raggiungere il confine libico, intraprendono rotte più pericolose attraverso il deserto, facendo affidamento sui trafficanti o sulla propria audacia. Qui, terra di nessuno, la jihad si sta riorganizzando da tempo in due raggruppamenti principali, legati uno a Al Qaeda e l’altro allo Stato Islamico.
Della risposta internazionale alla jihad in Niger – dagli analisti considerato con molte affinità all’Afghanistan, se non più pericoloso – a partire dal 2008 oggi rimane ben poco, se non un piccolo gruppo di militari italiani (attualmente circa 250) presenti dal 2018 all’interno dell’aeroporto della capitale.
Le popolazioni locali, che cercavano di trovare una propria autonomia economica e politica post-coloniale francese, hanno finito per stabilire convergenze tattiche con il jihadismo, piuttosto che continuare ad assecondare gli interessi economici delle ex potenze colonizzatrici, a cui l’élite continuava a essere legata. La cosiddetta “cooperazione allo sviluppo” era diventata, così, uno strumento di ricatto, condizionato in quanto richiedeva ai Paesi destinatari di conformarsi agli interessi di Stati Uniti e dei Paesi europei.
L’Italia è dentro questo sistema. Un modello che sta utilizzando come merce di scambio per la gestione dei migranti come quello firmato poche settimane fa con l’Egitto e quello appens rinnovato con la Tunisia, replica del già fallimentare “modello Libia”.
Per comprendere meglio cosa succede sulle vie del deserto, infernali non solo per il caldo, ma per gli abusi subiti da chi le attraversa, abbiamo intervistato Mark Micallef, direttore dell’Osservatorio per il nord Africa e il Sahel della ongGlobal initiative against transnational organized crime (Iniziativa globale contro il crimine organizzato transnazionale).
Potrebbe illustrare l’ampiezza del fenomeno migratorio?
Le rotte che conducono i migranti verso il Mediterraneo centrale sono da tempo piene di rischi di abusi fisici e sessuali, nonché di varie forme di sfruttamento, in particolare a livello lavorativo. Dopo la rivoluzione in Libia, la situazione è peggiorata su tutti questi fronti, a causa di molteplici fattori. Gli abusi non riguardano esclusivamente la Libia, ma lì la situazione è considerevolmente peggiore che altrove, nella regione. Il forte interesse da parte delle milizie, con intenzioni predatorie, ha amplificato il livello di sfruttamento dei migranti, sia all’interno dei centri di detenzione che di sfruttamento lavorativo, violenza e tortura in contesti di riscatto. Quest’ultimo ambito, in particolare, è diventato di per sé un mercato illecito ben consolidato, con i migranti regolarmente torturati all’interno di centri di detenzione formali e di siti di detenzione informali, gestiti da migranti, finché i loro parenti o amici non riescono a pagare un riscatto. Ogni anno in Libia decine di migliaia di migranti sono vittime di questo atroce crimine.
Tratta di esseri umani che spesso si mescola con lo sfruttamento lavorativo. Cosa succede per i migranti durante l’attraversamento del Sahara?
Oltre allo sfruttamento all’interno di centri di detenzione o degli snodi di passaggio, i migranti sono vittime di altre violenze, esistono un ampio gruppo di contesti in cui il traffico di esseri umani, a volte, si trasforma in una forma di tratta di esseri umani lungo le rotte che portano al Mediterraneo centrale. I migranti, in viaggio verso o attraverso la Libia, si ritrovano in situazioni in cui sono costretti alla prigionia e a lavorare per riconquistare la libertà. In alternativa, stipulano volontariamente accordi di lavoro vincolato, che a volte vanno storti, con il periodo di lavoro originariamente concordato che viene prolungato a piacimento dal datore di lavoro; il mancato pagamento che non consente ai migranti di pagarsi la traversata.
Ci potrebbe spiegare meglio?
Queste attività confluiscono sempre più nelle cosiddette “giden bashi” (“case a credito” in lingua hausa) prevalenti soprattutto nel Fezzan (regione della Libia nel cuore del Sahara). I migranti che non possono permettersi il viaggio, a volte scelgono di viaggiare a credito, che poi ripagano attraverso il lavoro. Il concetto è in vigore da molto tempo, in particolare tra le comunità Hausa che viaggiano dal Niger alla Libia, e, in particolare, tra i lavoratori stagionali del Niger meridionale. I migranti si trovano a fare sosta in città e villaggi dove vivono in “ghetti”, nelle case di famiglie povere, che ricevono un compenso dai trafficanti per l’ospitalità, in modo da dare meno nell’occhio alle forze di polizia. Tuttavia, negli ultimi anni, si è abusato di questa pratica, alimentando speculazioni e nuove forme di schiavitù. I migranti che non riescono a pagare i loro trafficanti perché a corto di soldi, ingannati o derubati dai trafficanti, sono stati oggetto di compravendita spesso come cessione del credito derivante dal debito contratto per l’alloggio o di sequestro in attesa che le famiglie d’origine pagassero un riscatto. In molti casi, la manodopera richiesta supera di gran lunga il denaro dovuto: ci sono stati casi di persone che hanno lavorato più di un anno per pagare un debito di poche centinaia di euro. Queste situazioni sono prevalenti nel sud della Libia, nel nord del Ciad e nel nord del Niger.
Quali tendenze emergono dal vostro monitoraggio continuo sul peso che l’economia del traffico e della tratta di esseri umani ha per gli abitanti del Sahel?
L’impatto dell’economia del traffico e della tratta di esseri umani non è uniforme in Nord Africa e nel Sahel. Non c’è dubbio che questi mercati illeciti abbiano un profondo effetto negativo su vari Paesi di transito, in particolare quando forniscono flussi di entrate significativi a elementi criminali, che possono, quindi, sfruttare tali fondi per espandersi in altre attività, corrompere o addirittura soppiantare lo Stato. Nel caso della Libia, una parte significativa del denaro generato attraverso il traffico e la tratta di esseri umani, finisce nelle mani di milizie che hanno tutto l’interesse a impedire allo Stato libico di affermarsi e a monopolizzare la sicurezza e l’applicazione della legge, poiché ciò minerebbe il loro potere nel processo.
Ciò avviene anche per effetto degli scarsi fondi messi a disposizione per la cooperazione allo sviluppo, dirottati per pagare dazio al trattenimento dei migranti?
Ne sono convinto. Per questo dobbiamo cambiare la nostra prospettiva di osservazione su quanto accade in questi Paesi, dove, a fronte di mancanza di sostegno ai progetti di sviluppo agro-pastorali, si è andata espandendo un’economia di confine attorno al traffico di esseri umani e al commercio di armi. Detto questo, l’industria del traffico di esseri umani può perfino avere effetti positivi sull’economia delle comunità di confine, pur prive di diritti civili, nel Sahel e nelle parti meridionali del Nord Africa. Penso alle comunità nel sud della Libia e della Tunisia, nel sud dell’Algeria, in alcune parti del Marocco, così come nel nord del Niger, nel nord del Mali e nel nord del Ciad. In alcuni di questi contesti, le attività che noi consideriamo illegali, si concretizzano in servizi di trasporto, commercio di beni, affitto di alloggi, laddove esistono poche opportunità economiche che definiremmo legittime.