Come sempre, per l’occasione, la “Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia...
Dalla Galilea: padre Abouna Raed Abusahlia parla del conflitto in atto
“Da un secolo siamo nella tomba, ma la nostra Pasqua di Resurrezione verrà. Fiducia e speranza restano”. L’affermazione, assieme all’augurio di buona Pasqua e all’appello per la pace in una terra martoriata, arriva dal sacerdote palestinese Abouna Raed Abusahlia, parroco della chiesa di Sant’Antonio, a Rameh, in Galilea, sacerdote del Patriarcato Latino di Gerusalemme. Dopo avere diretto la Caritas di Gerusalemme, vive in questa località, che si trova a una quindicina di chilometri dal confine con il Libano, mentre poco più a est c’è Cafarnao, con il lago di Tiberiade. Padre Abusahlia ha frequenti rapporti con alcune comunità e sacerdoti della nostra diocesi, in particolare con don Marco Carletto, che gli ha fatto visita qualche settimana fa.
Rameh è, certamente, lontana da Gaza, ma si trova nell’altra zona “calda” dell’attuale conflitto: il confine con il Libano. “I missili li sentiamo - ci racconta - ci sono continuamente scontri tra l’esercito di Israele e gli Hezbollah filo-iraniani. Per fortuna, il nostro villaggio è «protetto» dal monte Meron, l’altura più elevata della zona”. Tutta la popolazione israeliana della zona frontaliera è stata evacuata: “Si tratta senza dubbio di profughi - afferma il sacerdote -, ma di profughi «di lusso», ospitati negli alberghi sul mar Morto, a spese dello Stato israeliano. Invece, la popolazione palestinese che vive nei piccoli villaggi arabi, qui perlopiù cristiana, non vuole abbandonare le proprie case. C’è ancora il ricordo del 1948, quando i profughi non riuscirono più a tornare nelle loro abitazioni. Ci sono, inoltre, i riservisti israeliani, che presidiano il confine. I missili portano morte e distruzione; per esempio, ci sono stati più di 60 morti tra i militari israeliani che presidiano il posto di controllo del monte Meron, ma nessuno lo dice”.
Agli effetti della guerra, si aggiungono quelli sull’economia. “Spesso i riservisti sono uomini d’affari, molte attività sono bloccate. E non si permette di lavorare a 200 mila palestinesi. La perdita economica è fortissima, per tutti. A mio avviso, Israele non potrebbe permettersi di continuare questa guerra, senza il sostegno americano, che già si è fatto sentire. Qui sono già arrivati più di trecento aerei e decine di navi carichi di armi, e sono stati deliberati aiuti prima per 6 miliardi di dollari, poi per altri 14, e ancora per altri 3,3”. Aggiunge il sacerdote: “Si deve anche sapere che moltissimi israeliani - poiché 7 su 10 hanno una doppia nazionalità - stanno lasciando il Paese, si parla di 600 mila, l’aeroporto di Tel Aviv è affollatissimo, e questo va contro la cosiddetta «legge del ritorno»”, che per Israele, dopo la ricostituzione dello Stato, è sempre stata una stella polare”.
Con padre Abusahlia parliamo della celebrazione della Pasqua: “Può sembrare strano - ci spiega -, ma qui è appena iniziata la Quaresima. A Rameh, la maggioranza dei cristiani è ortodossa, poi ci sono i greco - cattolici e poi ci siamo noi. Da anni, celebriamo la Pasqua insieme, e quella ortodossa sarà festeggiata il 5 maggio. Sarebbe davvero importante che il prossimo anno, a 1700 anni dal Concilio di Nicea, i cristiani si accordassero su una sola data, per celebrare la Pasqua”. C’è, però, una forte vicinanza con le comunità cristiane che celebrano in questi giorni la Pasqua a Gerusalemme, e con la popolazione di Gaza.
“Quest’anno a Gerusalemme i riti vengono celebrati normalmente - racconta il sacerdote -, ma ci sono pochi pellegrini stranieri, e quasi tutti provenienti da Paesi asiatici, come le Filippine. Mancano europei e americani, per questo rivolgo a tutti i pellegrini l’appello a tornare in Terra Santa, a non lasciare «vuoti» i luoghi santi. A questa assenza, si aggiunge quella dei palestinesi che vivono, per esempio, a Ramallah o a Betlemme, ai quali non è stato dato il permesso di entrare in città”.
Il parroco è in continuo contatto con amici e conoscenti che si trovano nella striscia di Gaza, invasa dagli israeliani: “Gaza è distrutta, ci sono 32 mila morti, 100 mila feriti, un milione e mezzo di profughi. Se ci sarà l’attacco a Rafah, al confine con l’Egitto, ci sarà un altro genocidio. Sto cercando di trasferire aiuti a tre amici che sono lì, mi sento molto vicino alla comunità ortodossa di San Porfirio e alla comunità cattolica della Sacra Famiglia, che nonostante le ripetute richieste dei soldati israeliani, non hanno abbandonato la città. Alla Sacra Famiglia sono ospitate seicento persone, mancano acqua, elettricità, cibo”.
Conclude padre Abusahlia: “Dobbiamo pregare molto perché finisca questa guerra terribile, chiedo anche a voi, in Italia, di pregare intensamente!”. Al tempo stesso, “sono convinto che, anche se si dovesse trovare una soluzione provvisoria, seguiranno altri conflitti, perché bisogna andare alle radici, o attraverso la creazione di «due popoli e due Stati», soluzione oggi lontana, o con la creazione di uno Stato laico e democratico. Agli israeliani dico sempre che la loro salvezza è nelle mani dei palestinesi, solo una soluzione giusta darà a tutti pace e sicurezza”