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Editoriale. La scomparsa di don Raffaele, ci interroga sul mistero della vita e della morte

La scomparsa in giovane età del parroco di Mignagola e San Giacomo di Musestrelle, è stata motivo di grande dolore, ma anche stimolo di riflessione sul senso profondo di questa nostra vita, soprattutto sulla fragilità e precarietà della nostra esistenza. 

09/12/2022

Lunedì scorso abbiamo celebrato il funerale di don Raffaele Coden che, dopo un lungo e purificante calvario, ci ha lasciati ad appena 52 anni (si veda la sua testimonianza pubblicata nella “Vita del popolo” dello scorso 7 agosto).

Non serve dire che questa morte è stata per tutti causa di grande turbamento. Oltre al grande dispiacere e dolore, la prima considerazione che, forse, in molti è venuta alla mente, è quella della privazione per la nostra diocesi di un altro valido sacerdote, ancorché giovane, per il servizio al popolo di Dio.

Penso, però, che la morte di un prete, come di qualunque altra persona cara, susciti (o debba suscitare) una riflessione più ampia sul senso di questa nostra vita, soprattutto sulla costitutiva fragilità e precarietà della nostra esistenza. Questo, forse, viene più spontaneamente per coloro che sono stati segnati (o lo sono tuttora) dalla malattia o dall’infermità e, in qualche modo, sono “costretti” a convivere ogni giorno con il senso di provvisorietà e ad affidarsi alla provvidenza divina. In ogni caso, la morte di una persona a noi vicina ci fa subito realizzare quanto siamo fragili e vulnerabili e, al tempo stesso, ci porta (o dovrebbe portarci) a ridimensionare quel nostro istinto vitalistico, unito a un radicato desiderio di onnipotenza, che spesso condiziona le nostre relazioni con gli altri, con le istituzioni civili e, forsanche, con quelle ecclesiastiche.

In sostanza a prendere coscienza del limite e, di conseguenza, a maturare una maggiore umiltà, cose quanto mai necessarie ogni qualvolta siamo tentati di tenere il punto, pretendere di imporre i nostri punti di vista, farci rispettare e considerare. 

Una fragilità che purifica

L’esperienza della malattia, dell’invalidità e la prospettiva della morte, di solito, portano a relativizzare tante cose o progetti, e conferiscono un senso diverso al nostro vivere. Ad esempio, portano a non assolutizzare nulla, a vivere con umiltà e senso di precarietà anche i propri doni, capacità e abilità. Anche eventuali aspirazioni e desideri di sentirsi riconosciuti e considerati. Certe prove fisiche o esistenziali, se vissute nella fede, purificano il cuore e le intenzioni; di sicuro raffinano l’animo e portano, di solito, a cercare e a vivere l’essenziale. Forse, come scrive san Paolo, si arriva anche a sperimentare come è vero che il Signore manifesta in noi la sua potenza attraverso la nostra debolezza. Purtroppo, quando uno sta bene e la sua vita procede regolarmente e senza intoppi, corre il rischio di non porre limiti al suo agire e di ritenere che, con l’impegno, la buona volontà e l’efficienza, sia possibile raggiungere qualunque obiettivo e successo, professionale o pastorale che sia.

L’efficienza che emargina

Purtroppo, bisogna anche aggiungere che le istituzioni sociali, economiche e culturali, sono spesso impostate e procedono secondo la logica della produttività, dell’efficienza e delle esigenze dell’obiettivo da raggiungere, per cui non sono ammessi gli “scarti” umani (o i “carichi residui”) e tutto ciò che può condizionare il procedere del progresso. La debolezza e la fragilità degli umani e di certi soggetti sociali, non sono mai contemplatie, perché inficiano il senso di onnipotenza di ogni governance o sistema. 

Per questo, i poveri e tutto ciò che è fragile e debole, sono spesso visti come un intralcio al mito del progresso continuo per cui, piuttosto di avviare politiche di inclusione e di promozione umana, si preferisce anestetizzare queste “minacce” con ulteriori emarginazioni, o elargendo qualche sussidio. Si pensi, ad esempio, a certe perverse e inumane politiche verso i poveri, i dissidenti e gli immigrati che ancora oggi si attuano nel mondo. 

Purtroppo, come dice spesso papa Francesco, siamo succubi di una società segnata dalla “cultura dello scarto”, per cui tanti uomini e donne vengono sacrificati agli idoli del profitto e del consumo. Sappiamo bene quanto sia difficile invertire questi processi attraverso, ad esempio, la promozione di una economia solidale che inglobi e integri le fragilità e gli “scarti”.  Difficile certamente, ma possibile. Bisogna, però, crederci e iniziare partendo da piccoli progetti.

Fragilità della pastorale

Sarebbe, però, interessante avviare una riflessione anche sul nostro procedere ecclesiale e, in particolare, sulla pastorale delle nostre Chiese, per capire se anche noi siamo vittime del mito del progresso continuo e dell’onnipotenza o se, invece, assumiamo nei nostri processi, la costitutiva fragilità di ogni persona, comunità cristiana e struttura, con la conseguente relativizzazione dei nostri progetti. C’è da domandarsi quanto sia evangelico e sostenibile il nostro slancio pastorale con l’incalzante promozione (e rimozione) di tante iniziative o quanto, invece, sia dettato dal bisogno di segnare qualche punto in più, avere numeri e risultati da esibire, godere di gratificazioni personali o comunitarie. Come, pure, c’è da chiedersi se a volte, anche noi, non riteniamo la parrocchia o la chiesa un’azienda da gestire secondo i criteri dell’efficienza e della produttività e non, invece, una comunione di persone segnate e condizionate dalla fragilità del peccato e dalle sue conseguenze.

Lo sappiamo bene che, purtroppo e sempre più spesso, per quanto ci si dia da fare, i conti ormai non tornano più neanche per la nostra pastorale e per l’adesione e la permanenza della fede nel popolo di Dio. Di fronte a ogni nuovo, seppur lodevole, processo ecclesiale, non dovremmo mai dimenticare le parole del Maestro: “Chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?... Piuttosto cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta” (Mt 6,27.33).

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