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Pasolini: una voce libera come la sua arte

Cento anni fa nasceva uno fra i più importanti intellettuali italiani del Novecento. A Treviso una mostra nella chiesa di San Gaetano con 21 manifesti dei suoi film e un omaggio di Renato Casaro

11/03/2022

Caduti i pregiudizi, diradate le polemiche che a lungo hanno tentato di offuscarne la memoria o sottacerne i meriti, la figura e l’opera, sembra ormai assodato che Pier Paolo Pasolini, quand’anche non fosse stato “lo scrittore italiano più importante del secondo Novecento”, resterebbe senz’altro “il più importante intellettuale italiano”, come gli riconosce Carmelo Carnero nel recentissimo “Pasolini. Morire per le idee”, appena edito nei Tascabili Bompiani (euro14).

Se mai ci fossero dei dubbi, la conferma la fornisce la straordinaria fioritura critica quale pochissimi altri autori italiani del secondo Novecento hanno conosciuto a cento anni dalla nascita (5 marzo 1922).

Di Pier Paolo Pasolini colpisce, anzitutto, la sua assoluta unicità di misurarsi, con lucida intelligenza, con più fronti e con più generi diversi tra loro, che vanno dalla poesia alla narrativa, dal teatro al cinema, per finire con il giornalismo e con la critica filologica; e ogni volta, come scrive Carneo, “con un discorso creativo, aperto e nobile”.
E’ intellettuale scomodo e controcorrente Pasolini, “eretico e avverso alle etichette”, come qualcuno l’ha definito. Coraggioso quando scrive che “Nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole. E ciò che il potere vuole è completamente arbitrario o dettato da sua necessità di carattere economico che sfugge alle logiche razionali”. E tutto ciò senza immaginare una rivoluzione che potesse sovvertire un mondo sbagliato, limitandosi a biasimare con profonda, inguaribile tristezza la scomparsa di un mondo più autentico nel quale l’uguaglianza degli uomini non è quella della merce che annulla, a difesa di assurdi e ingiustificati privilegi, ogni diversità tra gli uomini.
E’ sincero e schietto, quando non lesina la critica, oltre che contro il potere senza volto, contro l’omologazione di massa o la perdita della società rurale, vittima di un consumismo che egli considera come “il nuovo potere che inganna il popolo”, capace di produrre “beni superflui che rendono superflua la vita” a danno di una società fatta di “consumatori di beni estremamente necessari”.

O quando, ancora, pur vicino alla spiritualità cristiana assorbita da piccolo da mamma Susanna, diventa assai critico verso la Chiesa, dalla quale - inascoltato - si auspica più coraggio nel contrapporsi alla deriva consumista della società, tanto da lasciare il cristianesimo per iscriversi al Partito Comunista.
E’ un impegno sociale il suo. Quasi una missione pedagogica che lo spinge, tanto nella sua narrativa più nota, “Ragazzi di vita” (1955) e “Una vita violenta” (1959), quanto quasi nell’intera produzione artistica, a dar voce e corpo poetico a quell’universo di emarginazione e dolore, sostenuto in questo compito tanto dalla grande ricchezza espressiva, quanto da una straordinaria, incisiva immaginazione di scrittura.

Una missione avvertita sin dalle prime composizioni, “Poesie a Casarsa”, seguite da “Poesia dialettale del Novecento” (1952) e “La meglio gioventù” (1954), in forma dettata di proposito in dialetto friulano, quello di mamma, maestra elementare, originaria di Casarsa della Delizia, piccolo paese friulano sulla destra del Tagliamento.
Una motivazione, quella che anima Pasolini, che è la stessa che lo accompagna per tutta la sua vicenda letteraria, poetica e umana, spesso volutamente polemica e provocatoria, ma sempre costruttiva, onesta, mai pregiudiziale, la ricchissima attività di saggistica poi raccolta in volumi come “Empirismo eretico”, “Scritti corsari”, “Lettere luterane” (postumo), i cui temi polemici ripropongono con lucido stile e sincera passione la motivazione ideologica e l’impegno a sostegno delle classi subalterne.
Sono tutte composizioni comprensibili all’interno di quello che la critica ha definito come espressione di un “Realismo come mitizzazione del primitivo”, tutte contrassegnate da una netta contraddizione che vive nel suo animo lacerando la sua mente.

Se da un lato, infatti, c’è il proposito di denunciare il degrado delle condizioni di vita delle classi lavoratrici, delle quali ideologicamente lo stesso Pasolini dovrebbe auspicare un miglioramento di vita, dall’altra si avverte nitido il timore che quel mondo ancora immune dalla dilagante omologazione propria della società consumistica, ricco di una “primitiva verginità umana”, sia da conservare e quasi custodire come preziosa eredità delle diversità che il progresso mortifica e tenta di cancellare per sempre.
E accanto alla contraddizione che anima i suoi scritti, emerge prepotente e incancellabile, l’altra caratteristica di fondo del mondo pasoliniano. E’ quella della diversità, forse il tratto distintivo di tutta la produzione, anche di quella cinematografica, proponendo con frenetica determinazione, coraggiose sperimentazioni scenografiche e interpretative nelle quali, assai spesso, se si escludono quelle ispirate alla rivisitazione di temi classici, quali “Edipo re” (1967), “Teorema” (1968), “Medea” (1970), “Decameron” (1971) sono tutte accompagnate da un pathos simbolico e da un forte realismo che si avvale di attori presi dalla strada e calati in ambientazioni povere.
Pellicole come “Accattone” (1961), Mamma Rosa (1962), “La ricotta” (1963) sono di fatto una coerente prosecuzione di romanzi come “Ragazzi di vita” e una “Vita violenta”. mentre il fortunatissimo “Il Vangelo secondo Matteo” (1964) riesce a cogliere il mistero del sacro con un realismo e una sentita passione, sostenuta da un racconto umano della figura di Cristo e da una profonda forza espressiva.

La tragica fine all’idroscalo di Ostia, in circostanze tutt’altro che chiare, nel cuore delle borgate di periferie così care a Pasolini, spegneva per sempre la sua voce.
A distanza da quel lontano 2 novembre 1975 siamo orfani di Pier Paolo Pasolini; sentiamo la mancanza di quel genio che pur in silenzio continua a parlare. E non sono pochi a pensare che ci manca la sua voce libera, la sua poesia, la sua arte, la sua eresia. Ci manca il suo essere e sapersi mischiare al popolo; essere voce e popolo insieme.

Nasce dalla collaborazione tra il Museo nazionale Collezione Salce,  la Cineteca del Friuli e Suasez, l’originale viaggio nel cinema di Pier Paolo Pasolini, che apre i battenti a Treviso, nella chiesa di San Gaetano, fino al 3 luglio. A essere proposti sono 21 manifesti, tutti provenienti dal Fondo Gianni Da Campo della Cineteca del Friuli di Gemona del Friuli;  ad accompagnarli, un nuovo manifesto dedicato al centenario pasoliniano, appositamente creato da Renato Casaro, il grande cartellonista trevigiano cui è dedicata, sino al  primo maggio, un’antologica in tre sedi: le due della Collezione Salce e il Museo civico di Santa Caterina.

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