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Il ricordo: profilo spirituale di padre David Maria Turoldo a trent’anni dalla morte

L’obbligo di redimere il tempo. Riscattarlo dalle vanità e dargli un senso, perché “il tempo è il velo di Dio, il luogo delle opere di Dio”

11/02/2022

Se n’è andato il 6 febbraio di trent’anni fa, David Maria Turoldo, frate dei Servi di Maria, ma è come se fosse ancora con noi.
Là, dal silenzio che sa di preghiera dell'Abbazia di S. Egidio di sotto il Monte, continua a parlare con i suoi scritti, con i suoi versi soprattutto.
Continua a cantare sul pentagramma di Dio. Un uomo dalla fede profonda, padre David, che con occhi semplici e stupiti, riesce a vedere in ogni cosa il riflesso dell'Infinito: nella nube “distesa sul solco nero”, nel raggio “che ferisce la nube”, nel cuore “della pietra e dentro la conchiglia del mare”.
Dio è “la voce del bosco al mattino, la “luce che inonda le vigne”, “la gloria serale nel canto azzurro di allodole”. Dio è “nelle risa dei bimbi sul prato”.
Poesia che cresce nell'intimo accento della preghiera: “Anima mia canta e cammina anche tu./ Camminiamo insieme e l'arida valle si metterà a fiorire./ Qualcuno, colui che cerchiamo, ci camminerà accanto”.
Che si fa canto della realtà umana lucidamente osservata, sino a diventare provocatoria, istintiva, scelta, dei poveri, lui che con la povertà aveva vissuto a lungo nella sua infanzia friulana - nono di dieci fratelli -, restando sempre fiero della sua umile origine contadina.

“Un Dio che io non so darti”
Leggere padre David, “coscienza inquieta della Chiesa”, “profeta che ci ha aiutato a non sbagliarci su Dio”, come dice di lui chi ha avuto modo di conoscerlo, è come sentire, nitido e senza equivoci, il suo messaggio, la forza di scommettersi a favore degli ultimi.
E’ come respirare il coraggio di chi vive, “con le sue ombre, le sue luci, i suoi deserti, le sue terre promesse, come un cristiano che cammina faticosamente nella fede e nella speranza e non ha paura di ammetterlo”, come di lui scrive il compianto card. Martini.
Non conosce distinzione tra cultura laica e clericale, padre David.
E’ aperto al dialogo, anche con chi non crede: “Fratello ateo, nobilmente pensoso alla ricerca di un Dio che io non so darti, attraversiamo insieme il deserto. Di deserto in deserto andiamo oltre la foresta delle fedi libere e nudi verso il nudo Essere e là dove la Parola muore abbia fine il nostro cammino”.
Più ci si addentra nel suo mondo, semplice e profondo al tempo stesso, più si coglie che è proprio il coraggio che segna ogni sua scelta quando nel dubbio e nei momenti di pieno sconforto non comprende il mistero dell'umana sofferenza: “Non c'è notte da Innominato che non possa essere squarciata da una preghiera. Perché anche il disperato spera; anche il suicida spera. Pure la morte spera... Anche il fiotto del sangue è un inaudito gemito. Anche chi grida a Te da luoghi troppo profondi e ti dice di non ascoltar la tua voce ti prega. E pure chi ti maledice, Dio, a suo modo ti innalza il suo De profundis assurdo”.
Uomo “forte”, “tenace”, “convinto”, dice di lui Carlo Bo.
E’ “uomo di frontiera”, sulle barricate, nei tragici giorni dell’occupazione nazista a Milano, a fronteggiare la tracotanza del potere, a partecipare alla Resistenza, interpretata come “scelta dell’umano contro il disumano” individuato nel fascismo. “La nostra conoscenza del mondo, avrebbe scritto dopo, coincise proprio con la Resistenza. Il mondo, la società, l’uomo, cessarono di essere per me delle entità astratte, oggetti di casi di morale”, per poi, amareggiato, negli anni Sessanta, aggiungere “ho creduto veramente nella possibilità di un mondo nuovo, o comunque diverso. Nella speranza che la storia dovesse cambiare. Era il tempo di Kennedy, il tempo di Kruscev. Non so che tempi fossero. Ora mi sembra una favola. Oppure ci siamo tutti sbagliati?”

Ha molto da dire all’umanità d’oggi
Ha ancora molto da dire all’uomo di oggi, padre David, quest’anima “grezza come materia prima”, “santità diuturna, senza soluzione di continuità, con la sigla della speranza”, scrive di lui don Tonino Bello.
Ha bisogno di ricordargli la necessità di “redimere il tempo”. Di liberarlo. Di riscattarlo dalle vanità e dargli un senso, perché “il tempo è il velo di Dio, il luogo delle opere di Dio”.
Sente l'urgenza di dirgli che è ora di disallinearsi da un “progresso” e una “scienza” che ci asserviscono anziché liberarci da una cultura che confina con la morte.
Una civiltà, la nostra, “nella quale non crediamo. Non crediamo in quel che facciamo, e tuttavia noi continuiamo a farlo, stregati o maledetti non so”.
Il nostro è “un mondo senza misura e senza gloria”: ha perso il dono e l'uso della contemplazione in nome di una civiltà del frastuono, di un tempo senza preghiera. Senza silenzio e quindi senza ascolto. Il diluvio delle nostre parole “ha soffocato l'appassionato suono della sua Parola”.
E’ tempo di spogliarsi dall'arroganza di esserci quasi sostituiti a Dio: “Nessuno nonostante la presunta onnipotenza, può aggiungere un cubito alla sua statura, spostare di un giorno il paletto terminale della sua esistenza; nessuno è sicuro di giungere fino a sera, oppure dalla sera al mattino; e cosa e chi incontrerà per via e cosa gli succederà nel giorno... ”.
E’ ora di prendere finalmente “la giusta misura davanti alle cose”.

“Vieni, Signore!”: richiesta sul letto di morte
Sul letto di morte, dove vive l'ultimo frammento di vita in un’accesa lotta contro “il drago”, come amava chiamare il male che lo macerava, padre Davide, ha la forza di scrivere: “Se la terra fosse un solo/oceano di speranza/e la speranza avesse una voce sola/un boato come quello del mare/e tutti insieme/sperassimo e urlassimo solo: Vieni, vieni, vieni, Signore!”.

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