Questo tempo particolare, che ci vuole preparare nella duplice attesa del Natale del Signore e del suo...
Con Paolo sulla via di Damasco
Sha’ùl, a ricordo del primo re d’Israele, cittadino della Cilicia, oggi regione meridionale in Turchia, poi Paolo, la cui famiglia godeva di diritto di cittadinanza romana, a torto o ragione è ritenuto il fondatore del Cristianesimo.
Senza di lui, l’“apostolo delle genti”, come poi sarà inteso, zelante ebreo della diaspora, esperto e convinto della Legge mosaica e come tale avversario del movimento di Gesù, blasfemo di Cristo, “persecutore e violento” del messaggio di Gesù, il Cristianesimo non sarebbe mai decollato e affermato.
Eppure, dopo quel “Saulo Saulo, perché mi perseguiti?”, dopo quella caduta da cavallo sulla via di Damasco dove si sta recando per l’ennesima persecuzione ai cristiani - episodio che segna il “prima” e il “dopo” della sua vita - è forse il primo a sperimentare, come egli stesso avrebbe scritto, che “soltanto Cristo è il fine della Legge, che in Lui sono la nuova alleanza e la nova creazione”.
A Damasco, infatti, dopo quella voce inattesa che viene dal cielo, “Io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti” , Paolo è stordito, accecato negli occhi e nell’anima, cerca una nuova identità, quale prima non aveva mai pensato. Sarà, poi, costretto ad ammettere di essere stato “conquistato” dal suo nemico, Gesù il Nazareno, (Fil 3,12); tanto da dover, addirittura, scrivere “Non più io, ma Cristo vive in me” (Gal, 2-20), ora che “la grazia si è compiaciuta di rivelare in me suo Figlio” (Gal,1, 15,16).
Di questo “apostolo dei Gentili”, di questo primo missionario nella storia del Cristianesimo, il cardinale Gianfranco Ravasi ha tracciato di recente una puntuale e dettagliata biografia, “Ero un blasfemo, un persecutore e un violento”, (Raffaelo Cortina Editore, pp. 208, euro 19), la quale si distingue dalle numerose precedenti, non soltanto per la già nota abilità narrativa di Ravasi, ma anche per la ricca e raffinata esegesi dell’impegno apostolico di Paolo, capace di scuotere, “dalla nascente cristianità sino ai giorni nostri, con la potenza creativa del suo pensiero e la passionalità della sua azione”.
Un suggestivo itinerario
Così, le lettere di Paolo - la prima testimonianza della predicazione apostolica - sono profonde, intime, e vissute, coinvolgenti talvolta, e Ravasi se ne avvale per disegnare “un suggestivo e originale itinerario”, annota Enzo Bianchi, quale mai prima sia stato tracciato, e se ne avvale per formulare la sintesi e nello stesso tempo l’ermeneutica dell’opera monumentale delle 13 lettere, alle quali va aggiunta una quattordicesima - la lettera agli Ebrei - se si riuscisse ad accertarne la paternità di Paolo.
Lettere occasionali, nelle quali prepotentemente traspaiono tutta la sua passione, tutta la sua intelligenza il suo impegno ad annunciare la “buona novella”; diverse per ampiezza e toni, sempre lucide e appassionanti, dai tratti quasi scultorei, uniche per stile e vivacità, immortali, se si pensa a quell’ “Inno all’amore” con il quale si rivolge ai Corinzi.
Lettere nelle quali si alternano accenti dolci e severi, paterni talvolta, insieme a raccomandazioni elementari che si saldano perfettamente, annota più di un interprete, con “tutta l’originalità cristiana e la forza provocatrice nei confronti delle due culture dominanti, quella ebraica e quella cristiana, il cui messaggio generale può essere anche dedotto da quanto descrive nella “Lettera ai Galati”: “Non c’è giudeo né greco, né schiavo né libero, non c’è maschio né femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”, espressione che inscrive all’interno di una modernissima concezione, propria - hanno ancora scritto - di “un cristianesimo cosmopolita, transfrontaliero, interculturale, interetnico, persino interclassista e intersessuale”.
Una lettura filosofica
Se per contenuto, per stile narrativo, per afflato fortemente pedagogico, le lettere sono concepite da questo “ultimo degli apostoli come un aborto”, come si definisce scrivendo ai Corinzi (1 Cor 15,8), per stimolare l’animo e la mente dei destinatari, - quasi si trattasse di un’originalissima quanto malcelata “maieutica” (l’arte di aiutare a nascere) - si può dedurre che merito di Ravasi sia anche quello di proporre al lettore interessanti e inaspettati, fortemente graditi, riferimenti alla letteratura, all’arte e al cinema, da Michelangelo a Caravaggio, da Werfel a Testori, da Tarkovskij a Rossellini e soprattutto alla filosofia, sollecitato com’è dalla rilettura in chiave filosofica della figura e dalle vicende paoline, operate a partire da Jaspers, il primo a vedere Paolo come un grande pensatore degno di figurare nei manuali di filosofia, anche da diversi pensatori e intellettuali contemporanei, fra i quali Derrida, Foucault, Badiou, Zizek, Vattimo, Cacciari e Agamben, e soprattutto dell’indimenticabile regista Pier Paolo Pasolini. Quest’ultimo aveva, addirittura, pensato di realizzare un film su Paolo, peraltro poi mai fatto, precisando nella sceneggiatura: “Paolo è qui, oggi, fra noi. Egli demolisce rivoluzionariamente, con la semplice forza del suo messaggio religioso, un tipo di società fondata sulla violenza di classe, l’imperialismo, lo schiavismo”.
Giudizi e valutazioni, quelli espressi e proposti da questa schiera di intellettuali, persino da alcuni di orientamento materialista e neomarxista, ovviamente non condivisi da Ravasi che scorge, ad esempio, nella provocazione di Pasolini il tentativo di interrogare il cristianesimo attuale con il messaggio a un tempo teologico e pastorale di Paolo, e di leggere “un invito a staccare Paolo da un mosaico absidale o dalle pagine agiografiche o dai saggi rigorosamente esegetici per farlo scendere nel nostro presente secolarizzato”.
Eppure si tratta di giudizi e valutazioni che, pur nella loro unilateralità, marchiati da un’ideologia e da una sensibilità abissalmente lontane da quella di Ravasi, che, tuttavia, testimoniano l’interesse che a distanza di secoli la figura di Paolo, di questo autentico testimone di Cristo, ancora oggi solleva.