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Centenario papa Benedetto XV: i legami del pontefice con la chiesa trevigiana

La fiducia al vescovo Longhin e ai suoi preti. La sorella del papa, Giulia, sposata col conte De Persico, viveva a Lancenigo. Più volte tentò di screditare il beato e i suoi sacerdoti

18/02/2022

La stampa ha ricordato, in questo periodo, il centenario della morte di papa Benedetto XV, il sommo pontefice noto ai più come colui che condannò la prima guerra mondiale come una “inutile strage”.

Questo papa ha lasciato traccia di sé anche in non poca documentazione trevigiana, sia per il periodo del grande conflitto, che iniziò in Europa proprio in quel 1914 che vide l’elezione al soglio petrino del cardinale Giacomo Della Chiesa, originario di Genova e allora arcivescovo di Bologna, sia per i primi anni del dopoguerra, quando anche nella Marca trevigiana fervevano le agitazioni sociali.

Non è molto noto che, prima di venire eletto papa, Benedetto XV ebbe non poche occasioni di frequentare il Trevigiano, sulla scia della vicenda biografica di sua sorella Giulia. Non è mai stato chiarito quale intensità e livello di qualità avessero assunto tali rapporti, che comunque furono di natura episodica. Egli fece i suoi viaggi nella Marca in varie stagioni della sua vita, anche da arcivescovo e da cardinale di Bologna, quando la sua presenza in loco non passava inosservata. Il motivo? Arrivava a far visita alla sorella Giulia, maritata con il conte Da Persico, residente nella villa di Lancenigo, posta sui confini del Comune di Treviso, a pochi passi dalla linea ferroviaria. Lì si soffermò più volte, per brevi periodi di riposo.
Ho già avuto modo di scrivere in passato sulle colonne di questo settimanale che non sempre questo legame di sangue tornò a favore della diocesi: nel dopoguerra la contessa spesso interveniva sul fratello Papa esprimendo le sue perplessità sull’atteggiamento del vescovo Longhin, per l’appoggio che egli dava alle battaglie per la giustizia sociale sostenute non solo da dei laici ferventi come i fratelli Corazzin e diversi altri, ma apertamente appoggiate dai preti diocesani più giovani. “Il povero vescovo è esaurito e assolutamente inetto a dominare i suoi preti”, si legge in una lettera della contessa Della Chiesa inviata in Vaticano.

Per nulla impressionati dall’ostilità della sorella del pontefice, sia mons. Longhin sia il cardinale patriarca di Venezia La Fontaine non mancarono di difendere la buona fede del clero più impegnato nell’azione sociale a favore dei contadini delle Leghe Bianche e - come hanno chiarito gli studi storici - essi ottennero da Benedetto XV la più ampia comprensione e un atteggiamento di non intervento vaticano in materia. In pratica, il papa seppe resistere alle pressioni della sorella, mossa da una mentalità fortemente intrisa della propria condizione sociale elevata, essendo lei di rango nobiliare, nonché da concreti interessi economici (i conti Persico avevano notevoli possedimenti nella zona di Lancenigo e in altre località).

Con quello che certamente fu il più celebre tra i giovani preti diocesani che affiancavano i sindacalisti cattolici nelle battaglie a favore dei contadini, cioè don Ferdinando Pasin, il papa aveva avuto dei contatti diretti già durante il periodo della Grande guerra, immediatamente dopo la disfatta militare di Caporetto. Per incarico del vescovo Longhin, ora venerato sugli altari, don Pasin seguiva le famiglie dei profughi disperse in varie regioni della penisola, fino alla lontana Sicilia. Per questo suo instancabile impegno di assistenza e collegamento con i Trevigiani più in difficoltà, il battagliero prete originario di Fagarè ebbe modo d’essere accolto in udienza direttamente dal papa. Già in una prima biografia su don Pasin, edita in un foglio a stampa del 1937 intitolato “A Te, Buon Pastore!”, si ricorda un episodio molto significativo, scrivendo che don Pasin “aveva per questo suo lavoro l’incoraggiamento di S. Santità Benedetto XV, che con tratto paternamente munifico, gli dispose una somma per il soccorso dei profughi più bisognosi. Il Papa voleva essere minutamente informato della sorte di tanti infelici, e una volta trattenne don Pasin, a questo scopo, in una particolare udienza di oltre mezz’ora”.

Finita la guerra e avviata la ricostruzione della martoriata Marca, il Papa divenne più volte l’interlocutore al quale si rivolsero le parti in contrasto che si stavano fronteggiando sul versante dei nuovi rapporti sociali ed economici in via di ridefinizione nella stagione del tutto nuova della società italiana: localmente lo contattarono sia gli agrari, sia gli esponenti del movimento sociale cristiano, gli uni attraverso la figura della sorella contessa Della Chiesa, gli altri tramite mons. Longhin.

In quei frangenti il vescovo di Treviso mantenne un atteggiamento severo verso gli agrari e le loro slealtà, tanto che nello scrivere a papa Benedetto XVI il 21 giugno 1920 per commentare il voltafaccia dell’Associazione agraria, che aveva disconosciuto il testo degli accordi precedentemente sottoscritti circa i futuri Patti agrari, egli così si esprimeva: “Dobbiamo pur dirlo, dalle classi dirigenti e dai ricchi non siamo coadiuvati. E se per la seconda volta si negasse fede ai patti sanciti, non so, ripeto, quali disordini si scateneranno in tutta la provincia. Che Iddio disperda la triste previsione”.

Essendo in precedenza stato richiamato dal Papa a prestare attenzione “su certe intemperanze di linguaggio e di azione” di alcuni sacerdoti trevigiani, da un lato mons. Longhin preannunciò un’inchiesta in merito, dall’altro rassicurò il Santo Padre “di avere in mano elementi sufficienti per assicurare la Santità Vostra che nessuno si è reso reo di quei delitti, cui accenna il venerato foglio di sua eminenza il cardinale Segretario di Stato, delitti che, se veri, meriterebbero le più gravi sanzioni”. Com’è stato ricostruito dallo storico Antonio Scottà, il Papa era venuto a conoscere personalmente il rabbioso articolo pubblicato su “La Gazzetta di Venezia” del precedente 13 giugno ed era rimasto fortemente impressionato dalle frasi gravemente ostili al vescovo Longhin.

La campagna diffamatoria contro i cattolici e il clero socialmente impegnato era stata ulteriormente alimentata nel giugno 1920 anche da un opuscolo anonimo dal titolo “Primo elenco dei fatti delittuosi commessi dai leghisti bianchi”, che circolava soprattutto negli ambienti politici romani. Pur stampato anonimo, l’attacco è stato successivamente attribuito (da Gasparri) ad Antonio Levada, sindaco di Oderzo e presidente dell’Associazione agraria di Treviso.

Quando, poi, a dar man forte ai grandi proprietari fondiari intervenne la forza brutale dei fascisti, che in varie parti del Trevigiano giungevano in massa a effettuare le loro incursioni punitive, Longhin non esitò a rivolgersi direttamente al Papa. Seguì un carteggio tra il vescovo e il segretario di Stato pontificio, cardinale Gasparri, dal quale emerge la ferma posizione del beato vescovo cappuccino in difesa del clero diocesano, da lui definito “così atrocemente calunniato”; l’interessante corrispondenza conservata in Archivio Segreto Vaticano, nel fondo della Segreteria di Stato, è stata integralmente edita nel 1994 dallo storico portogruarese Antonio Scottà, in uno dei suoi qualificanti studi.

Anche nelle più acerrime vicende Longhin sapeva di poter godere della fiducia di papa Benedetto e non mancò d’informarlo su quanto di veramente sconvolgente stava avvenendo nell’ambito della sua diocesi, invocando il suo interessamento. E così, quando nell’estate del ‘21 i conduttori della vasta Tenuta agricola di Ca’ Tron fecero arrivare da Padova le squadracce di picchiatori fascisti per bastonare e deportare i contadini bianchi in lotta, mons. Longhin prese in mano la penna e scrisse al sommo pontefice per informarlo che i fittanzieri si erano imposti “col terrore e con la forza”. Il presule fu chiarissimo nell’esposizione dei fatti, dichiarando: “Sabato mattina per tempo arrivarono su due camion i fascisti padovani, armati di rivoltella e altri strumenti di morte; indi, guidati da un fattore dei signori fittanzieri, irruppero in alcune delle principali case dei coloni, che erano ancora a letto, spargendo il terrore con minacce, perquisizioni e altri atti vandalici. Alcuni capi di famiglia furono dagli stessi fascisti arrestati e fra i pianti angosciati dei loro cari portati via col camion, prima a Padova, poi a Loreo, provincia di Rovigo, indi ad Ariano Polesine”.

Abbiamo qui riferito solo alcuni aspetti dello speciale legame storico, e rimasto storicamente documentato, tra papa Della Chiesa e il Trevigiano. Molti altri motivi di relazioni con lui attengono l’aspetto ecclesiale; sarebbe troppo lungo elencarli o darne la semplice sintesi in questa sede. Basti solo ricordare che fu papa Benedetto XV ad autorizzare con proprio autografo del 20 gennaio 1929 la riattivazione del Noviziato per le suore Canossiane di Treviso, augurando che esso tornasse “a essere scuola di virtù e palestra di santità”.

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