martedì, 19 novembre 2024
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Un cammino nella fiducia

Intervistato sulla sua nuova Lettera pastorale, il vescovo Michele fa il punto sul Cammino sinodale che continua con la fase sapienziale. “Viviamo in modo sempre nuovo l’incontro con Gesù Cristo” dice, e invita a non aver paura del discernimento che si apre e a guardare le situazioni e i fratelli e le sorelle “con lo sguardo di Dio”

E’uscita da un paio di settimane la nuova Lettera pastorale del vescovo Michele, dal titolo “Un cuore in ascolto - Un cuore che arde”. Un contributo importante per accompagnare il nuovo tempo del Cammino sinodale, la cosiddetta fase sapienziale. Abbiamo incontrato mons. Tomasi per chiedergli di condividere alcune riflessioni sul cammino che abbiamo intrapreso e per “presentare” il testo ai nostri lettori.

Con quale spirito ha scritto e ci ha consegnato questa nuova Lettera pastorale?

Con il desiderio di rimotivare a quel cambio di stile al quale cerchiamo di dare corpo con il Cammino sinodale, partito con i due anni di ascolto - che già qualche novità hanno generato -, e per continuare insieme nel percorso intrapreso dalla Chiesa italiana, nella fase sapienziale, per poi arrivare alla scelta delle priorità, con le decisioni che saranno prese nella fase profetica. Desidero accompagnare quel cambiamento di stile che, quando viene assunto, mostra di essere fecondo. Essendo una novità, costa fatica: molti non la capiscono, o non vogliono farla, questa fatica, ma è esattamente ciò che ci chiede la sinodalità, di cui ogni comunità è chiamata a farsi carico. Ecco, penso sia mio compito, più che dare indicazioni pratiche, motivare e aiutare ad andare alla radice di ciò che ci serve, e ricordare come, in questo cammino, abbiamo la possibilità di rivivere in modo sempre nuovo l’incontro con Gesù Cristo.

Nella presentazione lei sottolinea l’importanza di partire dalla nostra esperienza, per vivere l’ascolto reciproco e il discernimento. Quanto è importante questo modo di procedere?

E’ fondamentale, altrimenti si fa qualcosa che non è vita, e non è vita cristiana. La grande convinzione delle persone di fede è che l’incontro con Gesù Cristo dia senso e trasformi la vita. E questo incontro avviene nella nostra vita, che viviamo nelle occupazioni di ogni giorno, nella famiglia, nel lavoro, nella dimensione quotidiana e nelle tragedie della storia, come la guerra e i cambiamenti climatici, in quegli ambiti che non sono “accessori” rispetto alla fede, ma sono i luoghi nei quali i cristiani non possono che vivere da discepoli di Cristo. Per questo dobbiamo darci il tempo di incontrarlo e di capire come lo seguiamo, mettendo alla prova gli stili delle nostre comunità, del nostro stare insieme. Torniamo sulle questioni fondamentali: perché continuiamo a dirci cristiani, in un mondo che sembra dire che non serve? Quale amore ci spinge?

Sono stati due anni intensi di ascolto quelli trascorsi. Ritiene che la risposta delle nostre comunità sia stata buona?

Direi che ci sono tante persone grate per questo percorso e tante che ancora non sanno che siamo in Cammino sinodale, perché non interessate, perché chi avrebbe potuto non si è mosso per interessarle, perché ci sono delle resistenze al cambiamento, o non si capisce che cosa significhi riflettere continuamente, senza decidere. E’ un percorso che vede molti impegnati, non so se siano una maggioranza. Noto cose molto consolanti e cose che mi permettono di vedere i passi futuri della Chiesa trevigiana con una certa sobrietà.

Tra le “consolazioni” che cosa mette?

La risposta e le reazioni alla prima giornata di formazione dei Consigli pastorali, vissuta in contemporanea nei 14 vicariati. Ho avuto tanti riscontri di gioia di persone che si sono potute confrontare su temi che hanno a che fare con l’esistenza. Tra chi si impegna nelle nostre comunità, c’è il desiderio di approfondire la propria fede e anche lo stupore gioioso di essere in cammino con tanti altri, pur sapendo che siamo in un contesto di secolarizzazione forte. Da questo punto di vista ho la fiducia e la certezza che siamo sulla strada giusta e che dovremo fare le fatiche del coinvolgimento di tutti. Al di là della complessità e di possibili rallentamenti, il fine di tutto questo è essere Chiesa, trovarsi come comunità. Essere Chiesa non è “fare” qualcosa, ma essere convocati come assemblea santa di Dio, è lo stare insieme da discepoli. E “come” stiamo insieme è decisivo: se siamo in comunione, in buone relazioni, se costruiamo, se accogliamo, non se siamo omologabili al consiglio di amministrazione di un’azienda. Altri esempi sono il modo di partecipazione ai Consigli diocesani e l’esperienza di molte realtà parrocchiali che incontro, dove si vive un’esperienza di sintesi. Un elemento di grande fiducia, per me è stata anche la Peregrinatio di san Pio X, per la risposta della gente, per la modalità con cui questo tranquillo, ma felice popolo di Dio si è radunato e si è lasciato toccare dalla figura di Pio X vista attraverso le lenti del magistero di papa Francesco. Lì ho visto la dimensione autenticamente popolare della nostra diocesi, in senso positivo: un popolo che è radicato in una storia, e che la vive oggi, cercando un senso per tutte le fatiche e gli impegni della vita.

E la “sobrietà” rispetto ai passi futuri della nostra Chiesa, dove la individua?

In questo cammino di discernimento spirituale sulle priorità da individuare, facciamo fatica a non confondere l’essenza dell’essere Chiesa con le forme che possono e debbono anche cambiare. L’essenza è scoprire che cosa di Gesù Cristo mi fa continuare a essere parte della Chiesa, e come mi incontro, con lui e con gli altri, nella Chiesa: questo è il cuore della riflessione sulla Pasqua che faccio nella Lettera. Poi, però, ci sono delle forme che non sono le stesse con cui facevamo comunità dieci anni fa. Dobbiamo riuscire a cambiare, e qui vedo alcune grandi fatiche. Perché è vero che non esiste una Chiesa cattolica senza sacerdoti, ma non tutto quello che abbiamo chiesto al sacerdote fino a ora è donato con il sacramento dell’ordine. Buona parte di quello che chiediamo ai preti è dato col Battesimo, e quello ce l’abbiamo tutti. Adesso, poi, finalmente parliamo delle Collaborazioni pastorali come grammatica comune, perché sembra accettato che questo è il percorso della diocesi. Certo, però, non stiamo facendo dei passi veloci verso Collaborazioni pastorali vitali: su questo abbiamo tanto da lavorare, con pazienza. Abbiamo bisogno di un sovrappiù di fiducia, perché dall’iniziale fatica si scopre un “guadagno” a collaborare con le altre comunità. E quindi, direi una “sobrietà” intesa non come paura o disillusione, ma come consapevolezza che sono cammini che comportano una certa fatica.

Una fatica che vivono le comunità e anche i sacerdoti...

Dobbiamo chiederci come si manifesta la fede in Gesù Cristo. Se dimentichiamo questo nucleo non riusciamo a rivitalizzare le cose. Lo si può fare in maniera molto semplice, ma ci deve essere un’esperienza dove le persone si sentono accolte e volute bene, e questo può nascere solo perché credi nel Risorto, perché metti il Vangelo come luce sul tuo cammino. E’ una modalità di relazione che diventa feconda, ma per provarla specie in un tempo come il nostro, devi rischiare. Quando inizi a farla, trovi, insieme ai benefici, le persecuzioni, ma scopri che non puoi farne a meno. Malgrado tutto, malgrado la narrazione pessimistica, la mormorazione, alla fine le persone danno la risposta di Pietro: Dove vuoi che andiamo? Tu hai parole che danno vita e sono di vita eterna. Questa è la dimensione fondamentale, che poi si manifesta nella costruzione di forme comunitarie che permettano ai preti di viverle bene e ai fedeli di partecipare. Per questo ci sarà bisogno di un calo del sovraccarico di lavoro usurante, che viene vissuto nelle comunità dai presbiteri e anche da tanti laici. Non si tratta di fare molto, ma di fare con gusto le esperienze fondamentali della vita, che sono quelle del trovarsi, del lodare, del ringraziare, del pregare, del fare festa insieme, del prendersi cura gli uni degli altri. E questa è la traduzione dei tre compiti della Chiesa: l’annuncio, la liturgia e la carità, dimensioni che possiamo articolare in tanti modi diversi. Suggerisco di chiederci se davvero siamo disposti a credere che il Signore è risorto. Perché se crediamo questo, cambia tutto, altrimenti è dura vivere da cristiani. Nella Lettera presento gli incontri dei discepoli col Risorto: essi raccontano che hanno incontrato un vivente, e noi dobbiamo credere a loro. Questo pian piano cambia lo sguardo e l’esperienza. E la promessa che è insita nella risurrezione ci dice che la morte non è l’ultima parola, perché alla fine abbiamo bisogno di qualcosa, di qualcuno che ci salvi.

L’ultimo capitolo della Lettera lo dedica alle esperienze di viaggio fatte quest’anno, nelle missioni, a Roma con i cresimati, a Lourdes, alla Gmg, i viaggi per la Settimana sociale nazionale e, poi, i tanti incontri nelle parrocchie. Qual è il filo conduttore?

Io non amo viaggiare, ma ho voluto essere presente in realtà che ho pensato fosse bene abitare e raggiungere. Ogni volta ho toccato con mano la pienezza di una esperienza di Chiesa che fa bene a tutta la Chiesa e che è possibile a ogni comunità fare percorsi analoghi: toccare la dimensione missionaria, dell’accoglienza di nuovi membri nella Chiesa, una presenza nella Chiesa gioiosa, l’esperienza con i giovani che hanno bisogno di avere prospettive ampie, che nel corso degli anni abbiamo chiuso loro, l’esperienza della sofferenza, ma vissuta nella speranza di Cristo e di sua madre che si fanno vicini e accompagnano, e poi la dimensione della quotidianità: l’incontro con le comunità, in momenti per loro significativi. Ho visto che sentirsi uniti al proprio Vescovo fa fare un po’ di esperienza di Chiesa in più, e io vivo il desiderio, il sogno di questa sintesi, che è anche il frutto del Cammino sinodale, che deve vedere se ci sono le condizioni di possibilità per convertirsi nei vari ambiti. Ho raccontato la mia esperienza per condividerla, perché è una lettera a degli amici, dove racconto quello che è stato importante per me durante quest’anno.

Che cosa direbbe alle comunità che si apprestano a vivere il discernimento previsto da questo anno sapienziale?

Di non aver paura di discernere, di lasciarsi interrogare dalla Parola di Dio, di non aver paura della realtà, ma di guardare le cose, le situazioni con lo sguardo di Dio. Poi si sceglierà il bene maggiore, tra le cose importanti e buone che emergeranno.

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