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STORIE DI NATALE: In fuga dalla Siria per rinascere

Dalla guerra ad Aleppo in Siria, all’accoglienza di una famiglia trevigiana fino alla laurea in ingegneria all’Università Padova: ecco la storia di Hussein.

In ufficio fa caldo. Il responsabile della struttura di accoglienza si rivolge al nuovo arrivato e gli dice: “Ci sono scopa e ramazza per passare i pavimenti. Prendi in considerazione il lavoro nelle pulizie, può darti da vivere”. Era il 2014.
Oggi, quel giovane siriano - scappato dalla guerra di Aleppo e dalla prigionia, giunto in Italia grazie a una famiglia trevigiana, per un po’ alloggiato in una comunità di accoglienza - si è laureato a Padova con il massimo dei voti, lavora come ingegnere meccanico, fa ripetizioni di matematica ai ragazzi. E, ripensando ai primi tempi nel nostro paese, ammette di essere stato molto fortunato, ma di aver fatto anche tanta fatica.
Conosco Hussein da quando è arrivato nel trevigiano, la prima volta che ho ascoltato la sua storia ho pensato “Speriamo finisca presto”, ho provato una forte sensazione di vomito. E per restare ferma davanti a lui ho dovuto ripetermi: “Se me la racconta, significa che è sopravvissuto”.
Quando la guerra civile ha fatto irruzione ad Aleppo, nel luglio 2012, lui abitava con la famiglia, stava portando a temine un master di specializzazione in materie ingegneristiche. “Vivevamo bene, prima, in modo agiato. In città persone di religione diversa convivevano senza problemi, c’era lavoro per tutti”. Tra le più antiche che la civiltà conosca, Aleppo, soprannominata anche “la capitale del nord”, si è sempre contraddistinta come cuore commerciale dell’economia siriana, dell’arte e della cultura, mosaico di diverse etnie e religioni.
Nell’estate 2013, però, tutto va in macerie. Si sta consumando una delle battaglie più cruente e distruttive, di quelle che cancellano vita e quotidianità. Non si esce quasi più di casa se non per lo stretto necessario. Una mattina, al posto del padre, va fuori Hussein a cercare cibo. Viene preso e imprigionato dal regime perché ritenuto disertore, forse ribelle. “Prima delle bombe e dei cecchini non ho mai pensato di andarmene dalla Siria, non mi interessava proprio. Del resto: perché avrei dovuto? Conclusi i miei studi avrei potuto facilmente trovare lavoro e restare nel mio Paese, che conosco e amo”. Mentre racconta delle atrocità subite e viste attorno a lui nei mesi della prigionia, le torture, le condizioni disumane di vita, gli chiedo cosa, secondo lui, lo ha tenuto in vita. “Ho stretto a me un pensiero di speranza, sempre. Di poter uscire vivo da quel posto. Per non morire non dovevo impazzire, avevo bisogno di restare saldo. Allora, durante il giorno, mi tenevo impegnato ripetendomi tutto quello che avevo imparato negli anni dell’università e chiedevo ai miei “compagni” di fare altrettanto, di raccontarmi le loro storie. Mi serviva per mantenere la mente lucida, per non cedere alla disperazione e diventare matto”, come Primo Levi che ad Auschwitz continuava a recitare la Divina Commedia, perché il male non avesse l’ultima parola. “In quel periodo trascorso sotto terra ho capito che nella vita c’è il bene e c’è il male. Ho creduto in fondo al cuore che Dio mi avrebbe accompagnato, ovunque fossi andato”. Ha imparato a memoria più di trenta numeri di telefono di familiari dei compagni di detenzione. Quando è uscito, con le sue gambe che quasi non lo reggevano in piedi, li ha chiamati per rassicurarli, quantomeno erano ancora vivi.
“Sono arrivato in Italia grazie a un uomo saggio, il direttore di un’azienda che conosceva mio padre per motivi di lavoro. Mi ha accolto nella sua famiglia e mi ha aiutato nel mio percorso di rielaborazione della mia storia, di inserimento lavorativo e anche sociale”. Hussein avvia l’iter per ottenere lo status di rifugiato, prova a ricominciare, oltre gli ostacoli della burocrazia e anche le ferite dell’anima.
Trova un lavoro come operaio e un appartamento sgangherato, ma pur sempre accessibile per lui in autonomia. Non ha la patente, ma nel comune in cui si trasferisce è tutto abbastanza raggiungibile a piedi o con la bici. Il contesto non è facile, spesso in officina lo trattano come uno che “ruba il posto ad altri italiani”, che “se ne deve tornare da dove è venuto”. Nemmeno le relazioni sociali sono semplici, anche se qualcuno comincia a dar fiducia a questo ragazzo che non si dà per vinto.
Gli dicono che far riconoscere la sua laurea in Italia è troppo complicato, servono le autenticazioni delle ambasciate, ma in Siria gli uffici sono stati chiusi e trasferiti, l’università bombardata, chissà se esistono ancora gli archivi. “C’è voluto più di un anno per avere i documenti, ma ce l’ho fatta. Poi mi sono rivolto all’ateneo di Padova, mi hanno riconosciuto quasi tutti i crediti, ho sostenuto un esame integrativo e alla fine in autunno di quest’anno mi sono laureato”. Una grande soddisfazione. Un impegno, soprattutto linguistico dice lui, perché la materia (ingegneria meccanica) gli viene facile.
“Ho cambiato lavoro, il mio nuovo capo dopo la laurea mi ha chiamato in ufficio e mi ha detto che mi adegua mansionario e stipendio”. Si è fatto la patente, ha un piccolo giro di amici. Non potrà più tornare in Siria, dove resta la sua famiglia, i genitori e i due fratelli più piccoli. Tra i suoi compagni di università emigrati all’estero durante la guerra, soprattutto in Germania e in Svizzera, lui è quello che “ce l’ha fatta” più velocemente. Alcuni lo hanno accompagnato, la famiglia che lo ha accolto, la rete delle persone che si sono fatte prossime, ma per essere veramente onesti probabilmente nessuno avrebbe mai scommesso che questo caparbio ragazzo sarebbe riuscito a essere di nuovo se stesso.

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