Come sempre, per l’occasione, la “Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia...
Giornata internazionale del 25 novembre: Le parole contro la violenza
L’abbiamo avuta ospite nella nostra Treviso soltanto pochi giorni fa con la presentazione del suo libro, “Grammamanti”, all’interno di 4Passi festival: Vera Gheno è un nome noto e autorevole non solo come sociolinguista, ma anche come promotrice della parità di genere. Una partita che si gioca su molti fronti, non ultimo quello della comunicazione in senso ampio e della lingua in senso stretto. Quelle parole che possono essere anche veicolo di violenza e sulle quali meritiamo di riflettere in occasione del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Quando parliamo di violenza contro le donne dobbiamo sempre intenderla in tutte le forme in cui si concretizza e manifesta – sessuale, psicologica, economica, domestica. Tutt’oggi alcune di queste non sono ancora riconosciute come tali. In che modo anche le parole possono essere violente?
Almeno in due modi differenti: come manifestazione di un pensiero violento, cioè convogliano pensieri, giudizi, pregiudizi e stereotipi che si rispecchiano in qualche modo nelle parole che usiamo; e, poi, come esse stesse veicolo di violenza, e quindi non solo di un pensiero violento. Si sta parlando, in linea di massima, di violenza psicologica, che può sembrare meno grave della violenza fisica, ma quando la violenza è reiterata può avere anche conseguenze psicosomatiche. Le parole esplicitano il diverso trattamento che i diversi generi hanno agli occhi della società e rispecchiano la certa visione delle persone: per questo le parole contano e non sono mai parole e basta, sono ganci verso mondi di convinzioni, conoscenze, tradizioni, stereotipi, giudizi e pregiudizi.
Come anche per le altre forme di violenza, potremmo stilare una sorta di “piramide di gravità” nel modo sessista in cui – anche inconsapevolmente – usiamo le parole?
C’è sicuramente una stratificazione, cioè possiamo partire da una base in cui troviamo osservazioni sessiste, ma meno gravi, fino alla cima, con espressioni apertamente violente. Chiaramente i comportamenti linguistici più comuni non sono, poi, quelli più apertamente violenti e misogini, ma comunque di fronte a un comportamento linguistico sessista, anche apparentemente educato come può essere il chiamare “signora” una professionista, dobbiamo vederlo per quello che è, cioè prodotto di un humus culturale androcentrico in cui siamo immerse e immersi e che a volte è difficile da individuare.
E c’è anche il grande tema del maschile sovraesteso, cioè l’utilizzo di sostantivi e aggettivi al maschile per parlare di tutti i generi, e quello ancora troppo dibattuto delle professioni al femminile, nonostante ormai anche la psicologia sia scesa in campo per evidenziare che qualche influenza nella nostra percezione ce l’hanno eccome.
Abbiamo studiosi e studiose che si occupano di pregiudizi cognitivi, creati dall’utilizzo di certe parole al posto di altre. Nel caso del maschile sovraesteso hanno studiato che il nostro cervello lo decodifica in prima battuta come maschile e solo in un secondo momento come forma che fa le veci di un’assenza di genere che in italiano non abbiamo. Ci sono, però, persone che negano la validità di questi studi e, quindi, gli studi non bastano. A me sembra intuitivo e comprensibile che ciò che si nomina si vede meglio, per cui, nel continuare ad affermare la neutralità di un maschile sovraesteso e la non importanza del nominare le donne che lavorano ci sia della malafede. Mi sembra abbastanza chiaro che una donna che si rifiuti di definirsi al femminile, intanto non abbia capito come funziona la lingua italiana, che prevede i femminili professionali in ogni contesto in cui sia presente una donna, per cui tra maestra e ministra o tra infermiera e ingegnera non c’è differenza dal punto di vista linguistico. D’altro canto mi sembra anche una donna che avalla l’idea del maschile al centro della società, perché se io continuo a chiamarmi al maschile confermo che il mio essere donna in quella posizione è una specie di eccezione rispetto alla regola maschile, e quindi è un modo da una parte per non infastidire le strutture di potere tradizionali e dall’altra è un modo di sentirsi speciali rispetto alle proprie consimili.
Volenti o nolenti, l’attenzione mediatica sul tema si è fatta ormai pungente. Crede ci sia stato un miglioramento nel modo in cui i media comunicano la violenza di genere o ancora più in generale parlano delle donne?
Parlerei piuttosto di un aumento di consapevolezza del peso delle parole. Nel caso degli organi di stampa, sappiamo che si sono dotati di strumenti di autoeducazione sul tema, come la Carta di Venezia. Eppure ritengo che ci siano anche giornalisti, giornaliste e testate che scelgono scientemente di usare la lingua in modo sessista, violento e distorto per alimentare pregiudizi e paure. I giornalisti sono i “watchdog” (cani da guardia, ndr) della democrazia, è un lavoro serio che viene con grandi responsabilità, e tra queste anche quella di innescare circoli virtuosi e non viziosi. È più facile vedere una comunicazione errata quando, ad esempio, si va a descrivere per filo e per segno come è stato trovato un cadavere, il che va oltre il diritto all’informazione e si va a inquinare la distinzione che le persone hanno tra realtà e finzione. Poi, però, ci sono anche piccole forme di sessismo e violenza quotidiane più difficili da mettere a fuoco, che si traducono nella narrazione di donne come appendici dei loro uomini, nella romanticizzazione dei rapporti violenti, parlando di cose come eccesso d’amore, ma anche nel chiamare Biden per cognome e Harris per nome, nell’interesse per i mariti, i figli e gli sport delle vincitrici dei Nobel, cosa che non avviene quando si parla di uomini.
Basterebbe un cambiamento socio-culturale per arginare il fenomeno della violenza sulle donne? E di che cambiamento parliamo?
Il cambiamento socio-culturale pesa tantissimo, ma è tremendamente lento, cioè si imposta oggi, ma i frutti li vedranno le generazioni successive alla nostra. L’elefante rosa nella stanza, secondo me oggi, è che si lavora tanto e solo sulla capacità della donna di difendersi dalla violenza e nessuno parla della necessità da parte maschile di riconoscere i comportamenti violenti. Il femminismo deve essere trasversale e coinvolgere anche gli uomini, che devono riuscire a capire che da molti punti di vista mettono in atto comportamenti di genere che vanno decostruiti. Quando si dice che gli uomini sono compartecipi di una violenza, che parte dai fischi per strada (catcalling, ndr) e può finire con il femminicidio, gli uomini accusano di generalizzare e rispondono al grido di #NotAllMen (“non tutti gli uomini”, ndr); il che è vero, ma dire che c’è un modo di pensare che è genericamente maschile, in cui queste cose possono accadere, vuol dire riconoscere che abbiamo a che fare con qualcosa di sistemico, che non vuol dire sistematico. Questa difficoltà nel riconoscere la violenza e il sessismo deriva dal fatto che uomini, soprattutto quelli cisgender, essendo il “genere base” della nostra società, non scoprono mai cosa vuol dire di fatto essere parte di un genere, mentre le donne, volenti o nolenti, prima o poi si confrontano con questa necessità, che comporta per esempio la paura di muoversi per strada in ore tarde e così via. Le persone di genere maschile dovrebbero ragionare di più su questi temi e iniziare a decostruire questa componente più angosciante da tenere in piedi, che è quella della mascolinità tossica.