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Costretti a migrare dall'Afghanistan

A Santa Maria del Sile la serata organizzata per dare spazio al racconto di Maria Khurasani, afghana, fuggita dal suo Paese natale per costruirsi un futuro. Oggi è imprenditrice nel settore della ristorazione

Da quando i taliban sono tornati al potere nell’agosto 2021, secondo le Nazioni Unite l’Afghanistan è diventato il Paese più repressivo del mondo per le donne, private di molti dei loro diritti fondamentali. L’ottanta per cento delle ragazze non va a scuola, le donne sono state bandite da alcuni spazi pubblici e da diverse professioni, per esempio non possono più lavorare per le organizzazioni internazionali. Il regime ha azzerato le conquiste fatte in vent’anni e non sembrano esserci segnali di miglioramento in un Paese in ginocchio per tasso di povertà. “Non ci sono fabbriche, non ci sono attività agricole strutturate, perfino la farina viene acquistata in Pakistan” ha spiegato Maria Khurasani, giovane donna afgana in Italia dal 2018, durante una serata organizzata a Santa Maria del Sile per ascoltare il suo racconto, in cui si intreccia la vicenda familiare e personale con la storia del suo Paese. Due figlie, imprenditrice nel settore della ristorazione, spera di poter rientrare prima o poi in Afghanistan, dove tutt’oggi vivono la mamma e i fratelli. “Sono nata e cresciuta in un perenne stato di guerra; prima la presenza russa, poi la guerra civile, dopo l’arrivo dei talebani. Nonostante tutto sono stata fortunata, ho potuto avere un’istruzione, per un po’ ho anche lavorato”.

Tratteggia la storia degli ultimi cento anni di un Paese teatro di conflitti, interessi e presenze straniere, diviso fra etnie diverse in contrapposizione tra loro, su cui sono piovute risorse importanti per finanziare posizioni di potere, di controllo e corruzione. “Avevo circa 10 anni (fine anni ’90, primi anni 2000) e tutto il mondo era in Afghanistan, venuto a portare la democrazia e cancellare il terrorismo. I talebani c’erano già, eccome, stavano sulle montagne e tutti sapevamo che erano finanziati dall’America. Quando hanno preso il potere non ho più potuto andare a scuola, mi hanno insegnato i miei fratelli, tutti siamo diventati poveri. Stavamo come cavalli con i paraocchi, convinti che il nostro fosse il Paese più meraviglioso del mondo, senza avere nessuna conoscenza del mondo”. Per le bambine la prospettiva è una sola: arrivare ai 14 anni, andare in sposa a un uomo scelto dalla famiglia, fare figli. “Per questo anche io so cucinare molto bene, infatti gestisco ristoranti” sorride Maria.

L’attacco alle Torri Gemelle apre una nuova, lunga fase di conflitto in Afghanistan, durata 20 anni: guerra al terrorismo, schieramenti internazionali contrapposti, tanti interessi geopolitici ed economici in campo. Khurasani riesce a finire le scuole, trova lavoro. Tuttavia, la corruzione è alle stelle, nessuna prospettiva di sviluppo si vede all’orizzonte: “Quando ho capito che il mondo stava giocando con l’Afghanistan, che non cercava la pace e che il mio Paese non avrebbe avuto, in tempi brevi, una prospettiva di stabilità, ho deciso di andare via, non volevo che mia figlia crescesse in queste condizioni. Gli afghani che potevano cambiare il destino del nostro Paese sono scappati”, il 20% della popolazione è emigrato, in Iran se ne contano 780 mila, in Pakistan 1,5 milioni, in Europa, dove rappresentano il secondo gruppo di rifugiati dopo i siriani. “Ci dite: perché non ve ne state a casa vostra? Nessuno di noi avrebbe voluto rifugiarsi in Italia, ma avete giocato con il nostro destino e la nostra vita, distrutto le nostre abitazioni, come possiamo vivere?”. Emigrare è un processo difficile: in Pakistan non si ottiene facilmente il permesso di soggiorno, la polizia agisce con violenza contro l’immigrazione afgana; in Iran questa minoranza è discriminata, nonostante la storia dei due Paesi sia fortemente intrecciata, mancano i diritti fondamentali, subiscono rimpatri forzati. Motivo per cui la serata organizzata a Santa Maria sul Sile da Fatima Benam, donna di origine iraniana, per dare spazio a una voce di donna afgana, assume ancora maggiore significato. “In Europa ci sono difficoltà e ci vuole tanto tempo, ma alla fine anche per noi ci sono delle possibilità - spiega la Khurasani -. Anche per questo abbiamo costituito un’associazione che aiuta i nostri giovani emigrati a integrarsi velocemente per riallacciare i fili delle loro vite”.

Oggi il 97% della popolazione afghana, circa 34 milioni di persone, vive al di sotto della soglia di povertà. Due terzi - 28 milioni - avranno bisogno di assistenza umanitaria quest’anno per sopravvivere. Sei milioni di bambini, donne e uomini afghani sono a un passo da condizioni di carestia. E’ la peggiore crisi alimentare del Paese, poiché a questa si aggiungono eventi altrettanto rilevanti per il futuro dell’Afghanistan, tra cui la crisi economica, l’impatto della guerra in Ucraina, i cambiamenti climatici”.
All’inizio di maggio le Nazioni Unite hanno nuovamente suonato la sveglia alla comunità internazionale sull’Afghanistan alla conferenza di Doha. Nonostante le dichiarazioni sul “non dimenticheremo l’Afghanistan”, l’Italia non ha partecipato, secondo i comunicati Onu.

Durante l’incontro, a cui i talebani non erano invitati, l’intesa comune invocata da Guterres non si è trovata. Ma si è posto l’accento sulla necessità di provarci. Mentre in Afghanistan si sospetta che, ancora una volta, le vere preoccupazioni degli stranieri siano droga e antiterrorismo, solo a parole i diritti delle donne. Il disinteresse è misurabile. Pur trattandosi della più grave crisi umanitaria nel mondo, gli aiuti scarseggiano: nell’ultimo Piano di risposta umanitaria, l’Onu ha chiesto 4,6 miliardi di dollari. Ma “ha ricevuto appena 294 milioni di dollari - il 6,4% del finanziamento totale richiesto”, ha notato Guterres. “Del resto - conclude Maria - i problemi del Paese sono strutturali e l’intreccio degli interessi delle potenze del mondo non gioca a favore”.

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