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Lavoro: l'etica non è un soprammobile, ma l'essenza che sostanzia di valori i comportamenti
Recenti fatti di cronaca che hanno coinvolto l’azienda Grafica Veneta di Trebaseleghe, più che indurci a emettere facili giudizi, che rischierebbero di anticipare il corso della Giustizia, diventa occasione per ripensare con maggiore attenzione e consapevolezza al senso del lavoro e all’impronta che esso imprime nella vita di ciascuno.
Recenti fatti di cronaca che hanno coinvolto l’azienda Grafica Veneta di Trebaseleghe (Padova), un centro stampa che coinvolge circa 600 persone, dotata di tecnologia e organizzazione gestionale di eccellenza, più che indurci a emettere facili giudizi, che rischierebbero di anticipare il corso della Giustizia, diventa occasione per ripensare con maggiore attenzione e consapevolezza al senso del lavoro e all’impronta che esso imprime nella vita di ciascuno.
Può apparire una ovvietà ribadire qui subito la centralità della persona e il suo diritto al lavoro, ma il farlo rappresenta invece un modo semplice, onesto e vincolante per rimettere in ordine le priorità cui far riferimento: pertanto, non è ammissibile alcuna forma - consapevole o anche solo tollerata - di prevaricazione, intimidazione, sfruttamento o violenza a danno anche di una sola persona, particolarmente nell’ambito del lavoro.
Dopo quanto in premessa, alcune domande: qual è l’idea di lavoro che oggi esprime la nostra società? Quali sono le condizioni che lo rendono possibile, gratificante, qualificante, umano? Quale relazione tra etica e lavoro?
Se ci mettiamo dalla parte del lavoratore, appare evidente che, per lui, il lavoro è una necessità, un mezzo di sussistenza. Allo stesso tempo, tuttavia, è lo strumento che gli permette di esprimere la propria identità (competenza) e di tutelare la propria dignità: il lavoro, infatti, gli consente di sviluppare la propria abilità (Amartya Sen parlerebbe di “capabilities”) e il reddito che se ne ricava gli permette di soddisfare altri suoi bisogni.
Se guardiamo all’imprenditore, appare chiaro che per lui il lavoro rappresenta la sua abilità creativa e la sua capacità di “intraprendere”: tale obiettivo, strutturato in un preciso progetto imprenditoriale, sostanziato da un adeguato supporto economico, ottiene un risultato (prodotto) che si farà tangibile e disponibile esclusivamente grazie al coinvolgimento e alla valorizzazione del supporto e della competenza di altre persone.
Da qui emerge con evidenza quanto sia centrale la relazione tra le parti in causa (chi cerca il lavoro e chi lo offre), ovvero quanto sia sostanziale che si concretizzino le migliori condizioni possibili perché ciascuno, sentendosi riconosciuto e valorizzato, si coinvolga proattivamente in un processo che diventa, in tal modo, generativo, e non solo meramente produttivo. In tal modo, identità (sono riconosciuto) e qualità (offro il meglio di me) diventano allo stesso tempo condizione e risultato, sia per il lavoratore sia per l’imprenditore.
Il successo di una impresa, dunque, non è assicurato solo dal risultato finale (il prodotto), ma piuttosto dal modo (qualità delle condizioni lavorative) e dal percorso (la filiera del processo produttivo, le sinergie esterne utilizzate, gli aspetti fiscali e amministrativo-gestionali adottati) grazie ai quali si giunge a tale risultato. Ciò significa che non vi sono singoli elementi delle parti in gioco (imprenditore, lavoratore, prodotto, profitto, …) che possano essere assolutizzate una a scapito dell’altra: tutte debbono essere, invece, tra loro sinergicamente armonizzate.
Da ciò, ancora, se ne ricava che l’abilità dell’imprenditore è proprio quella di comporre insieme esigenze diverse, anche se talora tra loro appaiono conflittuali: esse possono sempre e comunque diventare complementari. Nel creare profitto, egli è in grado di occuparsi e di preoccuparsi di distribuire equamente tra i lavoratori la ricchezza prodotta e di indirizzare e coordinare l’intera filiera dell’organizzazione e della gestione del lavoro, favorendo coinvolgimenti affidabili, adottando coerenti strumenti contrattuali, all’interno prospettive progettuali che compongano insieme responsabilità sociale e sviluppo sostenibile.
E l’“etica”? Quale il posto dell’etica, di cui spesso ci accorgiamo solo quando non c’è più o quando viene calpestata?
In realtà, essa è l’essenza del lavoro, è il riferimento, la linfa, la condizione che lo rende possibile. Per questa ragione è giusto parlare di “etica nel lavoro”, piuttosto che di “etica e lavoro”, perché essa, come direbbe Vito Mancuso, «non è un soprammobile, ma l’essenza stessa che permette al mobile di stare in piedi».
L’etica nel lavoro non è nemmeno semplicemente un rimedio o un antidoto per sanare situazioni bacate o deviate, ma un “modo d’essere” (ethos). Se è vero che, come sostiene il prof. Giuseppe Trentin, «il vissuto, è sempre impregnato di valori e norme che vengono interiorizzati in modo spontaneo, un po’ come accade quando si respira», l’etica può essere assimilata a un alfabeto che esprime e interpreta il vissuto. Con altre parole: vedo come agisci, capisco cosa pensi e in cosa credi. Dal tuo “saper fare” riconosco il tuo “saper pensare”, e viceversa. Coinvolgersi e coinvolgere in questa sfida che esige consapevolezza e responsabilità, rimane l’unica via per dare senso al lavoro, ancorché al vivere stesso.
*direttore responsabile ethosjob