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Lavoro: l'etica non è un soprammobile, ma l'essenza che sostanzia di valori i comportamenti

Recenti fatti di cronaca che hanno coinvolto l’azienda Grafica Veneta di Trebaseleghe, più che indurci a emettere facili giudizi, che rischierebbero di anticipare il corso della Giustizia, diventa occasione per ripensare con maggiore attenzione e consapevolezza al senso del lavoro e all’impronta che esso imprime nella vita di ciascuno.

06/08/2021

Recenti fatti di cronaca che hanno coinvolto l’azienda Grafica Veneta di Trebaseleghe (Padova), un centro stampa che coinvolge circa 600 persone, dotata di tecnologia e organizzazione gestionale di eccellenza, più che indurci a emettere facili giudizi, che rischierebbero di anticipare il corso della Giustizia, diventa occasione per ripensare con maggiore attenzione e consapevolezza al senso del lavoro e all’impronta che esso imprime nella vita di ciascuno.
Può apparire una ovvietà ribadire qui subito la centralità della persona e il suo diritto al lavoro, ma il farlo rappresenta invece un modo semplice, onesto e vincolante per rimettere in ordine le priorità cui far riferimento: pertanto, non è ammissibile alcuna forma - consapevole o anche solo tollerata - di prevaricazione, intimidazione, sfruttamento o violenza a danno anche di una sola persona, particolarmente nell’ambito del lavoro.
Dopo quanto in premessa, alcune domande: qual è l’idea di lavoro che oggi esprime la nostra società? Quali sono le condizioni che lo rendono possibile, gratificante, qualificante, umano? Quale relazione tra etica e lavoro?
Se ci mettiamo dalla parte del lavoratore, appare evidente che, per lui, il lavoro è una necessità, un mezzo di sussistenza. Allo stesso tempo, tuttavia, è lo strumento che gli permette di esprimere la propria identità (competenza) e di tutelare la propria dignità: il lavoro, infatti, gli consente di sviluppare la propria abilità (Amartya Sen parlerebbe di “capabilities”) e il reddito che se ne ricava gli permette di soddisfare altri suoi bisogni.
Se guardiamo all’imprenditore, appare chiaro che per lui il lavoro rappresenta la sua abilità creativa e la sua capacità di “intraprendere”: tale obiettivo, strutturato in un preciso progetto imprenditoriale, sostanziato da un adeguato supporto economico, ottiene un risultato (prodotto) che si farà tangibile e disponibile esclusivamente grazie al coinvolgimento e alla valorizzazione del supporto e della competenza di altre persone.
Da qui emerge con evidenza quanto sia centrale la relazione tra le parti in causa (chi cerca il lavoro e chi lo offre), ovvero quanto sia sostanziale che si concretizzino le migliori condizioni possibili perché ciascuno, sentendosi riconosciuto e valorizzato, si coinvolga proattivamente in un processo che diventa, in tal modo, generativo, e non solo meramente produttivo. In tal modo, identità (sono riconosciuto) e qualità (offro il meglio di me) diventano allo stesso tempo condizione e risultato, sia per il lavoratore sia per l’imprenditore.
Il successo di una impresa, dunque, non è assicurato solo dal risultato finale (il prodotto), ma piuttosto dal modo (qualità delle condizioni lavorative) e dal percorso (la filiera del processo produttivo, le sinergie esterne utilizzate, gli aspetti fiscali e amministrativo-gestionali adottati) grazie ai quali si giunge a tale risultato. Ciò significa che non vi sono singoli elementi delle parti in gioco (imprenditore, lavoratore, prodotto, profitto, …) che possano essere assolutizzate una a scapito dell’altra: tutte debbono essere, invece, tra loro sinergicamente armonizzate.
Da ciò, ancora, se ne ricava che l’abilità dell’imprenditore è proprio quella di comporre insieme esigenze diverse, anche se talora tra loro appaiono conflittuali: esse possono sempre e comunque diventare complementari. Nel creare profitto, egli è in grado di occuparsi e di preoccuparsi di distribuire equamente tra i lavoratori la ricchezza prodotta e di indirizzare e coordinare l’intera filiera dell’organizzazione e della gestione del lavoro, favorendo coinvolgimenti affidabili, adottando coerenti strumenti contrattuali, all’interno prospettive progettuali che compongano insieme responsabilità sociale e sviluppo sostenibile.
E l’“etica”? Quale il posto dell’etica, di cui spesso ci accorgiamo solo quando non c’è più o quando viene calpestata?
In realtà, essa è l’essenza del lavoro, è il riferimento, la linfa, la condizione che lo rende possibile. Per questa ragione è giusto parlare di “etica nel lavoro”, piuttosto che di “etica e lavoro”, perché essa, come direbbe Vito Mancuso, «non è un soprammobile, ma l’essenza stessa che permette al mobile di stare in piedi».
L’etica nel lavoro non è nemmeno semplicemente un rimedio o un antidoto per sanare situazioni bacate o deviate, ma un “modo d’essere” (ethos). Se è vero che, come sostiene il prof. Giuseppe Trentin, «il vissuto, è sempre impregnato di valori e norme che vengono interiorizzati in modo spontaneo, un po’ come accade quando si respira», l’etica può essere assimilata a un alfabeto che esprime e interpreta il vissuto. Con altre parole: vedo come agisci, capisco cosa pensi e in cosa credi. Dal tuo “saper fare” riconosco il tuo “saper pensare”, e viceversa. Coinvolgersi e coinvolgere in questa sfida che esige consapevolezza e responsabilità, rimane l’unica via per dare senso al lavoro, ancorché al vivere stesso.

*direttore responsabile ethosjob

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