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Una pace oltre Hamas e Netanyahu, che rispetti la memoria

Intervista allo storico dell’Università Ca’ Foscari Simon Levis Sullam: “Alla pace si dovrà arrivare, ma con altre figure. Da condannare il riemergere di antisemitismo e islamofobia”
24/12/2023

Cosa sta accadendo nel Medioriente a partire dal 7 ottobre? Ne parliamo con Simon Levis Sullam, storico dell’età contemporanea dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e studioso dell’antisemitismo, recentemente firmatario di un documento sottoscritto da numerosi intellettuali italiani quali Marco Bellocchio, Carlo Ginzburg, Gad Lerner e Roberto Saviano.

Professore, cos’è accaduto il 7 ottobre? E’ stato veramente un “pogrom” (sollevazione anti-ebraica) come sostengono in molti?

Come i “pogrom” che si verificavano tra Russia zarista e Polonia a cavallo tra XIX e XX secolo, la strage del 7 ottobre è stata violenta e improvvisa, condotta con armi tecnologiche, ma anche con rapimenti, uccisioni e stupri, ripresi in alcuni casi nelle pagine social delle vittime stesse. E’ stata un’aggressione terrificante contro un gruppo civile con caratteristiche sociali e religiose diverse e nemiche. Da storico, tuttavia, è necessario valutare con cautela le analogie: la violenza antiebraica, infatti, non è sempre uguale nel tempo. Siamo di fronte, a mio parere, a una violenza antisraeliana piuttosto che antiebraica. Al rave, ad esempio, sono stati rapiti anche dei cittadini thailandesi, assolutamente estranei alle vicende. E’ stata chiaramente un’aggressione contro lo Stato di Israele, che Hamas vorrebbe cancellare dalla mappa. Hamas, nata da una lettura politica strumentale dell’islam e il cui statuto, almeno nella sua versione originale, si ispira direttamente ad alcuni passi del protocollo dei Savi di Sion, è una frangia estremista dell’islam, ma non sappiamo quanto consenso abbia questa politica sui cittadini di Gaza oggi.

Nell’ultimo anno la politica israeliana ha visto affermarsi movimenti religiosi integralisti e apertamente razzisti. Da dove emergono?

Dentro tutte le religioni ci sono correnti radicali, più o meno spiccate. E’ possibile mobilitare le religioni in chiave politica e violenta, come è accaduto alla Chiesa cattolica durante le crociate, oppure la colonizzazione delle Americhe. Il cambiamento di atteggiamento nella Chiesa cattolica si è avuto solamente con il Concilio Vaticano II. Anche il mondo ebraico non ne è immune, e alcune correnti dell’ebraismo si sono radicalizzate, creando colonie nella Cisgiordania per una lettura fondamentalista della Bibbia: Dio, secondo costoro, assegnò a Israele, per esempio, Hebron, dove è posta la tomba di Abramo. Da questi gruppi, è emerso nel 1995 l’attentatore di Yitzhak Rabin, il primo ministro israeliano che nel 1993 firmò gli accordi di Oslo. Questo delitto provocò in Israele una lacerazione non ancora risolta: la sua uccisione ha bloccato il processo di pace. I gruppi politici ultra religiosi di Israele, apertamente razzisti e osceni, sono al governo per mero opportunismo di Benjamin Netanyahu, che in questi anni ha sempre dovuto formare Governi di coalizione, spesso deboli, per stare al potere, ma non ha mai ottenuto la maggioranza assoluta dell’elettorato.

Che la società israeliana sia profondamente lacerata lo vediamo anche in questi giorni: i parenti degli ostaggi sono molto critici con l’operato del Governo...

Le richieste dei familiari degli ostaggi sono in contrasto con le politiche del Governo di Israele. Questo è avvenuto anche in Italia, durante i giorni del rapimento Moro, tra la famiglia, che voleva trattare con i terroristi, e il Governo che adottò la linea della fermezza. In Israele, parte del Governo è favorevole alla prosecuzione del conflitto per vie militari, sia per motivi ideologici che politico-militari. Tuttavia, la politica di Netanyahu ha fallito su tutti i fronti. Lo si è visto per le proteste senza precedenti, durate 40 settimane, innescate dalla proposta di riforma giudiziaria. Idem per questa aggressione devastante e senza precedenti, nella quale le responsabilità di Netanyahu sono gravissime. Forse la strategia militare serve a Netanyahu per presentarsi all’opinione pubblica come salvatore della patria: non dimentichiamo che è sotto processo per conflitto di interessi. Tengo a sottolineare che Netanyahu non è l’unico ad avere responsabilità: è dal 1948 che le classi dirigenti di Palestina, mondo arabo e Israele non sono riuscite a giungere a un solido accordo di pace. Il presidente egiziano Muhammad Anwar al Sadat, ad esempio, dopo aver riconosciuto Israele, venne assassinato da un membro dei Fratelli musulmani, a cui Hamas è strettamente legata. Lo stesso, dicevamo prima, avvenne a Rabin.

C’è qualcuno che vuole ancora la pace? Da che presupposti bisogna partire per attuarla?

Da storico, non posso prevedere il futuro, ma il passato ci indica delle vie. Se guardiamo oltre alla totale disperazione del presente, né Hamas né Netanyahu sono legittimati a firmare una pace, alla quale però si dovrà arrivare, ma saranno necessarie altre figure, sia israeliane che palestinesi, a firmarla. Bisogna partire dagli accordi di Camp David, per delineare una qualche forma di pace. Nonostante il centrosinistra israeliano sia sempre più dialogante in questo senso, forse sarebbe meglio se la pace fosse firmata da un esponente del centrodestra, scelta percepita dalla società israeliana come più rassicurante. Non sarebbe nemmeno la prima volta: fu infatti Menachem Begin, esponente del Likud, a firmare l’accordo con Sadat nel 1978, prima di invadere il Libano nel 1982. Allo stesso modo c’è un problema in Palestina, perché né a Gaza né in Cisgiordania si tengono elezioni dal 2007, nel primo caso perché Hamas ha installato una dittatura che si fonda su una lettura radicale dell’islam, nel secondo caso per non fare la stessa fine della prima. Chi governerà, quindi, a Gaza e in Cisgiordania? Che leadership per il mondo arabo? Che ruolo avranno attori come Usa, Russia, Cina, Iran e Turchia, Arabia Saudita? Si dovrà trovare una pace dopo una carneficina e questa dovrà ricostruire i rapporti tra due popoli. Il clima di disperazione durerà, purtroppo, a lungo, perché le ferite dell’anima non si rimarginano in tempi brevi.

Lei è uno storico e uno studioso dell’antisemitismo: c’è un messaggio che vorrebbe lanciare all’opinione pubblica?

L’appello che ho sottoscritto assieme ad altri intellettuali italiani vicini al mondo ebraico è post-identitario: l’abbiamo scritto, anzitutto, in quanto cittadini italiani, ritenendo che i popoli coinvolti siano più importanti dei politici di turno che li rappresentano. Chiediamo nel nostro appello il cessate il fuoco, la protezione dei civili, la ripresa del dialogo e il riconoscimento di due Stati. Dopo Hamas e Netanyahu sarà di fondamentale importanza per la ripresa del dialogo usare un linguaggio che rispetti la memoria di entrambe le parti. Riteniamo sia legittimo criticare il Governo israeliano, ma condanniamo fermamente la riemersione di antisemitismo e islamofobia, che sta avvenendo in Europa e non solo. Oggi troppi Governi di destra sono apertamente islamofobici e convergono con la leadership israeliana, di destra e conservatrice, accentuando quest’idea per cui il musulmano, il migrante, è il nuovo straniero, interno all’Unione europea.

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