venerdì, 20 dicembre 2024
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Terzo Natale di guerra in Ucraina

La difficile vita in Ucraina nella testimonianza, da Mykolaïv, di Alberto Capannini, volontario di operazione Colomba

Nelle strade della città portuale di Mykolaïv, nell’Ucraina meridionale, a 65 km dal mar Nero, la più antica del territorio ucraino menzionata nelle fonti scritte, c’è un sole tiepido invernale. È una città che si sta preparando al terzo Natale di guerra, sperando che sia l’ultimo. Il fronte non è lontano. Kherson, situata sulla sponda destra dell’estuario del Dnepr (a una trentina di km dalla foce di questo nel mar Nero), ancora sotto assedio, si trova a soli 50 chilometri, e di là del fiume ci sono i russi.

Durante il giorno, la vita scorre abbastanza normale, a Mykolaïv: qualche bar e supermercato aperto, qualche negozio e attività portuali. Ci sono le auto e i tram che girano. In giro si vedono pochi uomini, perché hanno paura di essere precettati al fronte. La corrente elettrica arriva solo per alcune ore della giornata. Solo una scuola primaria è aperta, mentre le università sono chiuse.

A Kherson la vita è ancora più grigia, non solo per l’arrivo dell’inverno e della prima neve. La città è pressoché deserta, e la vita sembra scorrere solo al mattino. Ci sono tre supermercati con tavole di legno al posto dei vetri. Le esplosioni si susseguono per tutta la giornata. Donne e bambini non ci sono più, gli uomini al fronte. Né a Kherson, né a Mykolaïv, chi è rimasto vuole tornare con la Russia, mentre su Kyiv aumentano le pressioni americane ed europee per la resa dei conti, con la cessione dei propri territori lungo il fiume Dnepr e sul mar Nero, per mettere fine al conflitto. E si aggiungono inquietanti segnali di terrorismo, come è accaduto martedì scorso a Mosca, con l’attentato contro il generale Igor Kirillov.

La vita, in Ucraina, è difficile e molto costosa. Le pensioni, quando arrivano, sono attorno ai 100 euro al mese, mentre lo stipendio medio si aggira attorno ai 250 euro al mese.

Abbiamo raggiunto Alberto Capannini, 58 anni, sposato con 3 figli, volontario dell’operazione Colomba - corpo civile e nonviolento di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII - a Mykolaïv. Ci racconta di trovarsi, con altri ucraini, in un rifugio sotterraneo, dove nel corso dell’intervista via Whatsapp mancherà la corrente, perché, nei giorni scorsi, sono state nuovamente colpite delle centrali elettriche. Manca l’acqua potabile, perché le condutture sono state fatte saltare più volte. “Sul fronte esplosioni di mortai, incursioni armate con droni causano morti e feriti civili ogni giorno. I civili fungono da sagome di addestramento, per poi colpire meglio i militari”.

Alberto ci dice che “la popolazione è stanchissima di questa situazione, che dura quasi da 3 anni. Di certo, l’ultimo pensiero che ha è quello del Natale, considerando che le famiglie sono spezzate e che non è prevista alcuna tregua in concomitanza. C’è poco da festeggiare da queste parti! La guerra non è una cosa a cui ti puoi abituare... come lo stupro, la pedofilia. Fa schifo e basta! La guerra fa danni non solo nel presente ma anche crea ferite difficilmente rimarginabili nelle generazioni future”.

La diplomazia sembra muoversi per un cessate il fuoco, ma Capannini è pessimista in merito. “Anche se ci fosse questo tentativo da parte di Trump di arrivare a una pace, nessuno tra la popolazione ucraina crede che potrà essere qualcosa di stabile. La pace proposta da Trump, con la cessione di parte dei territori ucraini, è vista come una resa degli Stati Uniti e dell’Europa verso Putin.

La gente si sente lasciata sola con la propria disperazione. Se la guerra va avanti continueranno a morire migliaia di persone. Se la guerra si ferma, non si ferma perché c’è una proposta vera di pace, ma perché c’è una proposta di sancire il diritto del più forte”.

In Ucraina molte persone “tengono duro, altre se ne vanno, altre ancora tornano indietro dall’estero”. Le famiglie sono spaccate dalla guerra. Alberto ci dice che, come operazione Colomba, cercano di garantire continuativamente la presenza di volontari per “non lasciare sole queste persone. Facciamo un po’ il contrario di quello che fa l’Europa e fa l’Onu. Invece di dare armi, diamo il nostro tempo per vivere accanto a queste persone, per ascoltarle...”.

Gli chiediamo se questa azione di prossimità possa essere risolutiva o avviare a una risoluzione del conflitto. Ci risponde: “Non lo sappiamo, ma senza dubbio testimonia il messaggio cristiano. Gesù non è venuto a dirci «festeggiate il Natale» o «festeggiate il Giubileo». È venuto a dirci «mi faccio uomo come voi per condividere la situazione di dolore che vivete»”. E aggiunge nel suo racconto che gli ucraini li vedono come delle persone che sono al loro fianco e che “cercano di portare il peso delle sofferenze della guerra reciprocamente, vivendone la quotidianità”.

“Quello che possiamo fare – conclude Alberto – è cominciare a entrare nella nostra coscienza, provando a sentire il dolore delle persone. Quanto siamo disposti a pagare, a rinunciare del nostro per la pace in Ucraina? Siamo disposti a rileggere la storia dell’Europa e dei conflitti passati? La storia che ha portato al secondo conflitto mondiale è una storia di ferite aperte. Il fatto che l’Europa dell’Est sia tutta spostata a destra, sia così nazionalista e militarista, ovviamente, non è un caso. Far entrare questa storia dentro di noi, dentro la nostra coscienza, significa cominciare a mettere mano per costruire un’Europa di pace”.

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