Come sempre, per l’occasione, la “Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia...
Inquietante escalation tra Israele, Libano e Iran
Spari di tank e fuoco di artiglieria: l’incursione israeliana in Libano ha avuto inizio lunedì 30 settembre. Sulla linea di silenzio-assenso degli Stati Uniti, che non hanno condannato l’escalation in corso, il nostro ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha dichiarato che l’Italia ha chiesto “che le operazioni di Israele siano limitate e mirate ai soli obiettivi militari”. Il Libano, conosciuto negli anni Sessanta come la “Svizzera del Medio Oriente”, fu sconvolto per venticinque anni da un lungo conflitto armato, che terminò con gli accordi di Ta’if del 1989.
Le tensioni tra Israele e Libano riflettono una più ampia competizione per l’influenza in Medio Oriente, una regione che resta cruciale per gli equilibri geopolitici globali. Un’escalation che potrebbe destabilizzare ulteriormente la regione, già segnata da anni di conflitti in Siria, Iraq e Yemen. Cruciale il ruolo dell’Iran, che martedì ha scatenato un attacco missilistico su vasta scala contro Israele, anche se in gran parte di valore dimostrativo.
Le radiotrasmittenti come trappole esplosive, prima, e la decimazione dei quadri intermedi di Hezbollah, poi, ha segnato l’allargamento del fronte di guerra israeliano a nord con il Libano. La guerra avrà un obiettivo minimo (allontanare le milizie dal nord) e uno massimo: ridisegnare lo scacchiere mediorientale. La direzione è la “Linea blu”: quella linea pensata dalle Nazioni Unite nel 2000 - e in certi tratti immaginaria - che separa il Libano da Israele, due paesi formalmente in stato di guerra sin dalla loro nascita - più di 70 anni fa - come Stati indipendenti.
Per capire meglio cosa sta succedendo, abbiamo intervistato il prof. Renzo Guolo, professore di Sociologia delle religioni all’Università di Padova.
Cosa sta succedendo in Medioriente? Un anno fa Gaza, oggi il Libano e domani?
Il domani dipende molto da questa fase in repentina evoluzione. Dopo aver in qualche modo conseguito una “vittoria” su Hamas a Gaza, Israele non vuole più nemici ai confini nemmeno a nord, con Hezbollah. Anche se, ricordiamolo, dopo il massacro del 7 ottobre, ha ottenuto il risultato di annullare militarmente, ma non politicamente Hamas. Espulsa da Gaza si rinsalderà in Cisgiordania con ben altra forza, rendendo difficile il controllo di quel territorio. La debolezza dell’Anp produce un vuoto politico, che gli islamisti riempiranno. E la vicinanza agli insediamenti dei coloni israeliani e retroterra giordano, dove vivono milioni di persone di origine palestinesi, renderà più complicato circoscrivere il conflitto. L’attuale Esecutivo israeliano è espressione della destra nazionalista e della destra nazionalista religiosa messianica. Quest’ultima, decisiva per la sopravvivenza del Governo, lega il possesso territoriale della Grande Israele alla questione dell’avvento della redenzione. Per questo chiede che la Cisgiordania venga annessa e Gaza ricolonizzata. Quanto all’operazione in Libano, si tratterà di capire se l’invasione di terra si fermerà, come affermato, al fiume Litani, realizzando una fascia di sicurezza profonda 30 km, attuata così come prevista dalla risoluzione 1.701 dell’Onu dell’agosto 2006, oppure se rappresenti, invece, l’inizio di un’operazione più vasta, destinata a penetrare in profondità e sradicare completamente la presenza in Libano degli Hezbollah, longa manus dell’Iran che ha combattuto questa guerra attraverso i suoi alleati (Hamas, Houthi ed Hezbollah).
L’attacco nel cuore della capitale libanese, avvenuto per la prima volta in anni, dimostra che Israele non vede “linee rosse”.
E’ andato ben oltre le linee rosse... Se mettiamo in fila i fatti: l’eliminazione dei leader militari, la manipolazione a distanza dei dispositivi cercapersone, la decimazione dei suoi quadri intermedi: tutte operazioni che dovevano preparare l’ingresso in Libano e rendere più debole la reazione della milizia sciita.
L’attacco in Libano è anche un segnale all’Iran?
Certamente. Si vedrà se Israele si limiterà a cercare di ripristinare la fascia di sicurezza o, in nome della politica del fatto compiuto, cercherà di penetrate in profondità e distruggere militarmente il Partito di Dio, contando sul fatto che l’Iran non abbia interesse a farsi coinvolgere, se non con operazioni “dimostrative”, nel conflitto. Evitare l’allargamento del conflitto dipende essenzialmente dagli Usa, gli unici che, teoricamente, possono premere su Netanyahu. Gli Stati Uniti hanno sempre dichiarato di non volere l’estensione del conflitto, ma non sono mai stati incisivi con il Governo di Tel Aviv. Le pressioni fin qui esercitate suonano come parole vuote, anche perché Washington non ha mai sospeso la fornitura di armi e sistemi di difesa aerea. Se Washington avesse voluto spingere per la pace, avrebbe interrotto anche l’erogazione di nuovi finanziamenti. Senza questi strumenti di pressione la “moral suasion” non basta. Anche perché la corsa per le presidenziali americane favorisce Netanyahu. Biden è ormai un’«anatra zoppa», Harris ha scelto di non staccarsi da Israele e dall’elettorato ebraico americano, anche a costo di perdere consenso tra i giovani “pro-pal” e tra i musulmani americani.
Cosa farà l’Iran adesso?
L’ingresso in Libano, così come le eliminazioni mirate di Nasrallah e dei vertici della milizia sciita, è un duro colpo alla leadership iraniana. Gli ayatollah avevano scelto di entrare in questo conflitto attraverso la guerra dei proxy, attraverso cioè i gruppi alleati e, quindi, senza essere direttamente coinvolti. Tutto sommato, andava bene anche a loro che proseguisse come guerra di attrito limitata, che mettesse in crisi l’avversario, ma evitasse una risposta pesante per la stabilità del regime. Netanyahu ora ha fatto saltare questa strategia. Se Teheran risponde ancora più pesantemente, si fa coinvolgere nel conflitto e rischia una sconfitta durissima che, in un momento di fragilità interna potrebbe portare alla caduta del regime. Se non risponde, la sua posizione politica estera subisce un colpo durissimo. Questo è il grande dilemma a cui si trovano di fronte. Anche se potrebbe cercare di uscire dalla trappola, puntando a rappresaglie limitate, che consentano agli Usa di frenare Israele. Insomma, un modo di salvare la faccia. Dipende molto da come decideranno di reagire gli israeliani, che potrebbero sparigliare il gioco.
Il Libano è un paese al collasso da anni e in balia di una mancanza di leadership istituzionale. Ne conviene?
Certamente... La situazione del Paese è debolissima. E’ un Paese senza Stato, bloccato, senza presidente della repubblica e con un Governo provvisorio da lungo tempo, oltretutto segnato da una grave crisi economica. L’ultimo censimento, che serve a stabilire i rapporti e le rappresentanze istituzionali, è stato fatto quasi un secolo fa, nel 1932. Mai più ripetuto per evitare che i mutamenti demografici potessero condurre a nuovi equilibri confessionali nella ripartizione delle diverse cariche dello Stato. A questo si aggiunge che gli esiti della lunga guerra civile, e i loro postumi politici, non sono stati del tutto superati. Insomma, le tre comunità, cristiana, musulmana sunnita e musulmana sciita, vivono in una sorta di separatezza comunitaria. Situazione critica, aggravata anche dalla crisi sanitaria legata alla situazione nei campi profughi che ospitano i siriani fuggiti dal loro Paese dopo la guerra del 2011.
Le radici di tali divisioni sono, quindi, interne?
Senza dubbio eventi esterni sono stati rilevanti nella storia del Libano, ma le radici del conflitto sono da ricercare nel sistema politico del Paese. La Repubblica costituzionale libanese nacque con il sistema dei mandati della Lega delle Nazioni, nel 1920. Il sistema politico libanese fu impostato come una democrazia confessionale, in cui i membri del Parlamento sono eletti sulla base di quote che rispecchiano il peso demografico dei rispettivi gruppi religiosi ed etnici. Tale sistema rivelerà, ben presto, la sua debolezza, che dura fino a oggi. In ogni caso, gli sciiti sono cresciuti al punto tale - Hezbollah rappresenta la loro principale espressione politica - che sono in grado di fungere da Stato nello Stato.
Il mondo musulmano appare diviso, tra i Paesi che sostengono a testa bassa la causa palestinese e ora libanese, e quelli che hanno scelto di non schierarsi in nome degli affari?
L’unità araba è una mitologia, gli Stati nazionali hanno ormai interessi diversi. L’attacco del 7 ottobre è avvenuto anche perché Hamas puntava a fare in modo che gli Accordi di Abramo (firmati da Israele, Emirati Arabi Uniti e Usa) venissero congelati dall’Arabia Saudita: la loro attuazione avrebbe cancellato da ogni orizzonte la questione palestinese. L’obiettivo di Hamas, come è avvenuto, almeno temporaneamente, era quello di bloccarli. Molti ritengono che Israele stia facendo il “lavoro sporco”, oltre che per Usa e altri Paesi occidentali, anche per i Paesi arabi sunniti, che vedono nell’Iran sciita una minaccia. Ragione per cui, non ci sarebbero state prese di posizione capaci di frenare la condotta militare israeliana. Anche i festeggiamenti seguiti, dopo l’uccisione del capo politico libanese Nasrallah, nel mondo sunnita lo confermerebbero. Gli interessi iraniani sono diversi da quelli dei Paesi sunniti del Golfo.
Gli Accordi di Abramo sono quindi oggi lettera morta?
Sono morti per ora, anche se l’Arabia saudita li avrebbe firmati... e, potendo, li firmerà alla fine di questo conflitto. In quanto Paese custode dei luoghi santi dell’Islam, Riad non poteva far finta di nulla, anche se per gli attuali governanti sauditi la questione palestinese non è dirimente.
Ritornando all’Occidente, le vite dei libanesi appaiono oggi sacrificabili tanto quanto quelle dei palestinesi?
Non dovrebbero esserlo, ma purtroppo pare così. Le vittime civili sono già numerose. E’ gravissima la questione del doppio standard che, di fatto, considera in misura diverse le vittime se appartengono a popoli occidentali o a altri popoli. Come dire che le vite delle persone occidentali valgono di più. Tutto questo genera reazioni identitarie, percorsi di radicalizzazione che vanno a scapito di tutti.
Che ruolo ha svolto, in questo conflitto, l’Europa?
Purtroppo, nessuno. Si limita a seguire gli Stati Uniti, così come avviene sul fronte ucraino. E’ una posizione miope, se non altro per la vicinanza geografica dell’area mediorientale e per le possibili conseguenze sul fronte migratorio. Bisogna avere un proprio punto di vista sul mondo. E, se si vuole contare, porsi il problema di una politica estera e di difesa europea.
Non si può negoziare un cessate il fuoco, e tanto meno la pace, con un uomo che preferisce fare la guerra. Questo è il dilemma che si trovano ad affrontare gli alleati di Israele preoccupati della politica di Netanyahu?
Un cambio di Governo gioverebbe, ma in queste drammatiche ore cresce l’assenso verso le scelte militari di Netanyahu sul fronte libanese. Bibi sembra aver recuperato nei sondaggi, rendendo ardua l’idea che si possa giungere a un mutamento. Il panorama non premia le forze pacifiste o meno oltranziste. La sinistra in Israele non esiste più, cancellata da errori, trasformazioni sociali, mutamenti demografici, flussi migratori dalla diaspora. L’alternativa, oggigiorno, è tra un’estrema destra nazionalista o nazional-religiosa, e un centrodestra. Quanto a Netanyahu, la guerra, come si è visto, gli è servita per restare al potere. L’esibizione delle due mappe della regione mediorientale la settimana scorso all’Onu rivela le sue concezioni del mondo.
Siamo a un anno da quel tragico 7 ottobre 2023. Hamas è oggi più o meno forte di un anno fa?
Hamas è molto debole a Gaza, e molto più forte in Cisgiordania. Cosa che rischia di allargare le tensioni in questo territorio. La popolazione cisgiordana si trova quotidianamente a scontrarsi con i coloni israeliani, che vogliono allontanarla dalla loro terra. Essa vede in Hamas una forza capace di surrogare l’impotenza dell’Autorità nazionale palestinese. Se oggi ci fossero le elezioni in Cisgiordania, sarebbero probabilmente vinte da Hamas. Il vero nodo nei prossimi anni sarà proprio la possibile annessione della Cisgiordania da parte di Israele, e il conflitto che ne nascerà.