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In Sudan un conflitto sempre più dimenticato

Il numero degli sfollati interni ha superato i dieci milioni

Quattordici mesi fa, il 15 aprile 2023, è iniziato il conflitto in Sudan, causando la morte di quasi 20 mila persone, secondo le stime ufficiali. I numeri, però, stando alle ong presenti sul campo, sarebbero molto più alti, in una tragedia di cui, per ora, non si vede la fine.

Il numero di sfollati interni in Sudan ha superato i 10 milioni, ha dichiarato lunedì scorso all’Associated Press l’agenzia delle Nazioni Unite per le migrazioni.

I combattimenti iniziati nella capitale del Sudan, Khartoum, tra le Forze armate sudanesi (Saf) e le Forze di supporto rapido (Rsf), si sono rapidamente diffusi in tutto il Paese. Molte persone sono, così, state costrette a fuggire verso aree interne più sicure. A causa di questo conflitto i Paesi limitrofi (Ciad, Egitto e Sudan del Sud) si trovano a ospitare più di 2 milioni di persone, che hanno bisogno di aiuti umanitari urgenti. Secondo l’Onu, il Paese sta affrontando una delle più grandi crisi in corso a livello globale, con metà della popolazione, circa 25 milioni di persone, che ha bisogno di assistenza e sostegno umanitario. Di questi, oltre 14 milioni sono bambine e bambini.

Motivo della guerra civile è la gestione dei proventi delle risorse minerarie e del petrolio, con in mezzo gli interessi di Paesi stranieri, che in cambio non fanno mancare le armi alle due parti in conflitto. All’orizzonte, si intravedono solo villaggi saccheggiati, la presenza di milizie straniere, depredamento delle risorse, pulizia etnica.

Secondo l’ong Human rights watch, i paramilitari delle Rsf, aiutati dalla Russia (attraverso i mercenari russi dell’ex Wagner corporation, ora Africa corps), hanno attaccato per mesi i Masalit - etnia non araba di origine nordafricana - per cacciarli dalla regione, compiendo numerose violenze, anche mortali, su migliaia di civili inermi.

Una guerra che “conviene”. Una situazione derubricata dalle agende di politica estera, che l’Occidente - e anche il G7 sotto la presidenza italiana - non ha la forza di risolvere, così come gli altri attori dell’area (Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Russia), perché prevalgono gli interessi economici.

Le Rsf sono sostenute da russi ed emiratini, e parzialmente da milizie ciadiane ed etiopi, che hanno interesse a indebolire la giunta militare, mentre quest’ultima si appoggia all’Egitto e all’Arabia Saudita con i suoi alleati. Più ci sono altri attori esterni: Stati Uniti, Ue e Ucraina. Gli Stati Uniti sono interessati in funzione antirussa, l’Ue per cercare di stabilizzare la situazione e impedire una “bomba migratoria”.

E poi, come sempre, quello che accade in Africa non ha la stessa attenzione mediatica che hanno eventi in altri contesti. Basti ricordare che la crisi in Darfur esiste da oltre trent’anni.

Crisi umanitaria. Nelle scorse settimane, l’Unhcr (l’organismo Onu per i rifugiati) e le ong presenti nell’area hanno lanciato degli appelli perché non ci si dimentichi di questa guerra, le cui conseguenze si stanno allargando a più Paesi dell’Africa sahariana. Per le tante vittime, l’assistenza umanitaria è l’unica speranza di sopravvivere. Le persone non hanno accesso ai beni e ai servizi essenziali, come il cibo, l’acqua, un alloggio, l’elettricità, l’assistenza sanitaria e l’alimentazione, ma anche all’istruzione, ai servizi anagrafici. Il blocco degli aiuti umanitari è usato come arma di guerra dalle due fazioni, portando a una situazione di illegalità in tutto il Paese, con saccheggi e abusi all’ordine del giorno. Gli operatori presenti nei campi di accoglienza testimoniano che, una delle poche prospettive che i sudanesi sfollati intravedono è quella di provare la migrazione verso l’Europa.

A questi appelli, si è unito papa Francesco, che ha chiesto una risposta unitaria da parte della comunità internazionale per evitare “una carestia incombente” in Sudan, dove i bisogni umanitari sono “massicci, acuti e immediati”.

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