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Editoriale: La morte e i suoi riti

Il rito delle esequie fra nuove tendenze e sensibilità diverse

28/10/2021

Nel giorno della Commemorazione dei fedeli defunti, i nostri cimiteri vengono frequentati da molte persone; diventano luoghi nei quali, più che in altri momenti, hanno il sopravvento la memoria e gli affetti verso i propri cari. Proprio attorno all’evento della morte ogni cultura ha elaborato i suoi riti.

Per noi cristiani riveste un significato particolare quello delle esequie, così carico di fede e di speranza nel mistero della risurrezione, ma anche così messo alla prova da nuove tendenze e sensibilità sociali e culturali che cercano di “integrarlo” o sostituirlo con altri riti e messaggi non sempre in sintonia con la visione cristiana della vita e della morte. Penso, in particolare, a certi saluti o commiati che, sempre più spesso, avvengono in ambienti “laici”, come nella “casa funeraria” o “sala del commiato”, nei quali ognuno si inventa una sua ritualità. Penso anche ai riti, a volte stravaganti, della dispersione delle ceneri. Ma anche alla cura ossessiva del corpo esposto del defunto (la tanatoprassi) in modo da renderlo perfetto, ringiovanito, quasi a voler esorcizzare la morte o renderla meno drammatica e nascondere ogni segno dell’incipiente deterioramento.

Una complessità celebrativa
Il rito cristiano delle esequie, seppur avvolto dal dolore e dalla mestizia della circostanza, ha, però, una sua certa solennità e perfino bellezza, come si addice a un momento nel quale la vita del defunto viene contemplata nella luce del Signore risorto e dell’ingresso nella casa del Padre misericordioso, il quale accoglie tutti coloro che hanno creduto e sperato nella risurrezione dei morti e nella “vita nel mondo che verrà” o che lo hanno cercato con cuore sincero.

Celebrare il mistero pasquale di Cristo
Al tempo stesso, come è nella tradizione liturgica romana, il rito ha anche una certa sobrietà e rifugge da ogni ridondanza, al punto che poco sopporta inserimenti estemporanei di oggetti, segni, musiche e canti legati alla vita del defunto, o discorsi pronunciati da amici e parenti, molto carichi sul fronte emotivo, preoccupati di ravvivarne la memoria ma, sempre più spesso, inclini a far emergere i sentimenti di chi parla piuttosto che la vita del defunto o un qualche aspetto della fede cristiana. Dimenticando un po’ tutti, forse anche noi preti, che le esequie non sono primariamente una cerimonia di congedo da una persona cara, ma la celebrazione del mistero pasquale di Cristo nella morte di un credente.
Di solito certi interventi o elementi evocativi e simbolici richiesti da parenti e amici vengono collocati fuori della chiesa, subito dopo la conclusione del rito. Più problematica è, invece, la richiesta (ammesso che venga fatta prima) di fare dei discorsi durante il momento del congedo o leggere qualche testo. Il rituale per i funerali prevede che possano essere pronunciate “secondo l’opportunità” solo “parole di cristiano ricordo del defunto” (n. *81), ma questo aggettivo, “cristiano”, sappiamo bene come ognuno, in genere, tenda a interpretarlo a suo modo. In ogni caso, certi discorsi o testimonianze spesso oscurano o vanificano le belle parole e il ricco simbolismo del rito del commiato.

Il logoramento del rito
Per questo i preti, a volte, sono presi dalla tensione di dover gestire la celebrazione al meglio, nel tentativo di rispettare il rito e, al tempo stesso, la sensibilità della gente, proprio in un momento affettivamente ed emotivamente così delicato e in tempi molto ristretti (magari anche per l’incalzare di un altro funerale) che non consentono con i familiari, più di tanto, mediazioni o ragionamenti di sorta. C’è così il rischio che qualche prete finisca per cadere o in un rigoroso ritualismo o, all’opposto, per evitare storie, nel completo esaudimento dei desideri della gente.
Sta di fatto che, sia per il mutato contesto culturale propenso a relativizzare e accettare tutto, sia per una certa caduta della fede con la conseguente difficoltà a comprendere e a rispettare i riti della Chiesa sia, infine, per i media che fan vedere come in Italia e nel mondo si faccia un po’ di tutto, con grande fantasia e non senza stravaganze, alla fine il parroco si trova tra le mani una “patata bollente” difficile da gestite, e con l’impressione che ormai l’apparato rituale della Chiesa si stia sempre più logorando o che non sia più adatto per i tempi che cambiano.

Superare la prassi attuale?
Durante il lockdown, quando erano vietati funerali e assembramenti, tutto si svolgeva in cimitero con la presenza del prete e di pochissimi parenti, con una preghiera, una parola di cristiano conforto e la benedizione. La celebrazione della messa, come avviene in molti Paesi del mondo (ad esempio in America latina), veniva celebrata successivamente, in un altro giorno. Diversi sacerdoti, pur nella drammaticità di simili situazioni, hanno anche apprezzato l’essenzialità di questa forma rituale e, a dire il vero, anche qualche familiare del defunto, perché il funerale è stato celebrato senza confusione, abbracci, saluti interminabili, ma solamente nel raccoglimento, nel silenzio e nella preghiera. Certo, è mancata la folla di amici e conoscenti che nei nostri paesi è di conforto per i familiari in lutto. In compenso, l’evento della morte e della sepoltura hanno, forse, acquistato in sobrietà, raccoglimento e maggior dimensione religiosa, perché sono risuonati solamente le parole e i segni della fede. Forse, così come prevede anche il Rituale delle esequie al cap. IV, si potrebbe cominciare a ripensare la nostra prassi celebrativa anche in questa prospettiva.

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