Come sempre, per l’occasione, la “Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia...
Editoriale: Le cinque giornate di Draghi
Anche se ora gli ex alleati, a costo di arrampicarsi sugli specchi, si rimpallano la responsabilità della crisi, la sostanza delle cose non cambia: per l’ennesima volta i partiti (e i loro leader) hanno anteposto i propri interessi a quelli del Paese
Sono bastati cinque giorni di follia per decretare la fine del Governo guidato da Mario Draghi, nato 18 mesi fa. Tutto è iniziato giovedì 14 luglio, con il M5S che non ha votato al Senato la fiducia sul “Decreto aiuti”. Da quel momento si è scatenato l’inimmaginabile, qualcosa, a tutt’oggi, incomprensibile. Con la sua assurda scelta, Giuseppe Conte ha offerto, con tanta ingenuità e imperizia, un assist perfetto (forse atteso da tempo) a Matteo Salvini e a Silvio Berlusconi. Lega e FI, infatti, mercoledì 20, dopo concitate riunioni, telefonate, veti incrociati e tanti patemi d’animo, al momento della votazione sulla fiducia chiesta da Draghi come condizione per portare avanti l’opera di riforme avviate dal Governo, sono uscite dall’aula mandando, così, tutto all’aria.
Anche se è vero che una qualche ambiguità e forzatura l’ha messa in campo pure il Partito democratico (l’escamotage suggerito a Conte di votare la fiducia e poi di ritirare i ministri, garantendo così al Governo l’appoggio esterno; oppure l’insistere in questo momento e con questi alleati, su temi controversi quali la cannabis, lo ius scholae, ecc.), resta il fatto incontrovertibile che, comunque la si voglia mettere o girare la frittata, Conte, Salvini e Berlusconi sono i veri responsabili della fine di questo Esecutivo di “unità nazionale”.
Anche se ora gli ex alleati, a costo di arrampicarsi sugli specchi, si rimpallano la responsabilità della crisi (un po’ come i bambini che, rotto il giocattolo, non sanno dir altro: “E’ stato lui, è stata lei”), la sostanza delle cose non cambia: per l’ennesima volta i partiti (e i loro leader) hanno anteposto i propri interessi a quelli del Paese, preso dalla pandemia, dalla guerra in Ucraina, dalla crisi energetica, dalla galoppante inflazione e, soprattutto, dall’urgenza di attuare le riforme previste per beneficiare dei fondi del Pnrr.
Il richiamo delle urne
Nella incomprensibilità di questa crisi, almeno una cosa sembra chiara: visto che i sondaggi, da diverso tempo, davano i partiti di centrodestra (Lega, FI, FdI) in vantaggio rispetto a quelli di un non ben chiaro centrosinistra, Salvini e Berlusconi, frastornati dalle sirene di Giorgia Meloni, hanno deciso di cogliere l’occasione per passare all’incasso. Consapevoli che, in questo frangente, l’avversario storico, ossia il Partito democratico, per la scelta avventata di Conte, è finito in grosse difficoltà, vedendosi sfilare in pochi giorni il progetto di dar vita, con il M5S, a un “campo largo”, o riformista, di centrosinistra, che alle elezioni potesse competere con il centrodestra. Enrico Letta, infatti, per coerenza politica, ha deciso di ricusare la fin qui coltivata e, in parte, attuata a livello locale, alleanza con il M5S. Posizione confermata anche martedì scorso alla direzione del Pd. Al momento, pertanto, per Letta la situazione delle possibili alleanze è assai complessa e difficile da comporre, perché ci sono troppi veti incrociati e riserve da parte di tutti. Carlo Calenda, mentre sta raccogliendo attorno a sé i fuoriusciti da FI, alza sempre più l’asticella; poi c’è Luigi Di Maio, con il suo nuovo movimento, che guarda soprattutto ai sindaci, oltre che agli ex M5S. Per non parlare, poi, di Matteo Renzi che ora dice di voler correre da solo. Di questo passo, a due mesi dalle elezioni, il centrodestra (che pure è unito solo di facciata) potrebbe trovarsi con un avversario diviso e, quindi, con una vasta prateria libera.
La parabola di Draghi
Mario Draghi, in questa vicenda, si è mostrato molto risoluto e poco accomodante (ma sarebbe servito a qualcosa?) verso i partiti che sostenevano il suo Esecutivo. Forse anche un po’ sprezzante nel rinfacciare errori da loro commessi e, in ogni caso, deciso nel rifiutare di aggiungere, alla già nutrita agenda del Governo, le ulteriori nove richieste di Conte e le cinque di Salvini (tra cui lo sforamento di bilancio di altri 50 miliardi). Con molta probabilità, Draghi era ormai irritato dalla continua melina dei partiti e di dover ricucire gli strappi che essi provocavano sempre più spesso nella coalizione. Dopo la richiesta, per lui irricevibile, da parte del centrodestra, di dar vita abun Draghi bis senza Conte (o, nella versione del centrosinistra, con l’appoggio esterno di M5S), ha capito che nei partiti non c’era alcuna vera volontà di andare avanti. E così, nonostante al Senato abbia per due volte avuto un voto di fiducia, prima di essere “impallinato” del tutto se ne è andato, tra lo stupore e lo sconcerto di tanti cittadini e del mondo produttivo, dell’Europa e di altri Paesi, i quali non riescono ancora a capire per quali alchimie e intrallazzi politici l’Italia abbia voluto privarsi, in tempi così critici, di una personalità competente e autorevole come Draghi.
I prodromi della rottura
Riteniamo, però, che il rapporto tra il premier e i partiti della coalizione si sia incrinato in modo irrecuperabile con la sua mancata elezione alla Presidenza della Repubblica che egli, con ogni probabilità, sollecitato dai tanti “rumors della piazza”, dava quasi per scontata. La motivazione, addotta da Conte, Salvini e Berlusconi, secondo la quale, in questa fase delicata per il Paese, era indispensabile che egli rimanesse saldamente alla guida del Governo fino a fine legislatura, dopo nemmeno sei mesi, ha rivelato quanto fosse del tutto pretestuosa, ambigua e, persino, stucchevole. Anzi, secondo noi, proprio a partire da quel momento, nell’attesa che arrivasse un pretesto per rompere (appunto, l’ingenuo errore di Conte), alcuni partiti hanno cominciato a stilare la propria agenda politica ed elettorale e a preparare il “draghicidio”. In tutto questo, francamente, ci sorprende la posizione di Berlusconi e l’appiattimento sulla Lega che sta subendo FI. Ora, inizia un periodo cruciale per la definizione delle alleanze, la formazione delle liste elettorali e per organizzare, in piena estate, una campagna elettorale che sarà molto aspra, con continue accuse tra i partiti e con la gara a chi la spara più grossa (per ora ha iniziato Berlusconi promettendo di portare le pensioni minime a 1000 euro).
Alla fine di tutto, però, a noi, come a tantissimi cittadini, rimane l’amaro in bocca e lo sconcerto per una vicenda così incomprensibile e assurda, dai caratteristici contorni kafkiani.