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Speciale Liberazione: memoria viva di giustizia e libertà

Ricorrono, il 25 aprile, gli ottant’anni dalla Liberazione, che pose fine alla guerra e all’oppressione del Fascismo. Decisiva, oltre all’intervento militare alleato, la Resistenza, armata e non, di vasti strati di società, di tanti giovani, anche di numerosi cattolici. Ripercorriamo quei giorni

L’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea della Marca trevigiana (Istresco), da tempo si è preparato per celebrare in modo significativo l’ottantesimo anniversario della Liberazione. In vista di questo 25 aprile, l’Istituto ha promosso, assieme ad altri soggetti, un vero e proprio festival, a Treviso (vedi articolo a pagina 26). Abbiamo intervistato Lucio De Bortoli, presidente dell’Istresco.

Professore, possiamo dire che l’atto di nascita della Resistenza trevigiana sia la riunione di antifascisti a Bavaria, il 7 ottobre 1943, nel granaio della canonica?

Sì, Bavaria fu il primo tentativo concreto di coordinare gruppi dispersi e disorganizzati in un’azione comune. Fu anche l’incontro di tre anime diverse della Resistenza: quella politica, quella militare e quella morale. Fu il momento in cui ci si chiese: che fare di fronte alla caduta del fascismo e all’occupazione tedesca?

Quali erano queste tre anime e come si distinguevano?

C’era l’antifascismo politico, rappresentato dai partiti come Pci, Dc, Partito d’azione, che volevano ridare senso alla politica, dopo vent’anni di regime. Poi, c’era l’anima militare, con ufficiali sbandati, che organizzarono la prima risposta armata all’occupazione. Infine, gli “spontaneisti”, giovani che avevano creduto al fascismo e ne erano usciti disillusi: da qui la loro “rivolta morale”. Tra questi, figure come Primo Visentin, il “Masaccio” del Quartier del Piave.

Perché la Liberazione è ancora così discussa?

Perché è una pagina storica breve, venti mesi, ma che ha prodotto una narrazione infinita, perché riguarda l’identikit del Paese. È stata una rivelazione, il risveglio da un lungo incantesimo. Chi scelse di combattere non lo fece solo contro l’occupante, ma per riscattare se stesso e la Nazione.

La Resistenza fu solo una lotta armata?

Assolutamente no. Ci fu una “Resistenza civile”, fatta di aiuti, nascondigli, supporto logistico. Le donne, ad esempio, furono fondamentali: staffette, mediatrici, protettrici. Anche molti parroci parteciparono, dando vita a reti di salvataggio per partigiani ed ebrei. Una Resistenza meno celebrata, ma decisiva.

Eppure, non tutti appoggiarono la lotta partigiana.

Vero. La cosiddetta “zona grigia”, specialmente nelle campagne, pur con legittime ragioni culturali, antropologiche e storiche, preferì restare neutrale. Le violenze, le rappresaglie, i bombardamenti, come quello su Treviso del 7 aprile 1944, raffreddarono gli entusiasmi. La Resistenza non fu mai unanime: fu l’azione di una minoranza idealista, come nel Risorgimento.

Possiamo dire che i giovani furono i veri protagonisti?

Sì. I partigiani erano, per il 75%, ragazzi tra i 18 e i 25 anni. Fu un movimento giovane, disomogeneo, a volte ingenuo, ma pieno di energia morale. Nelle lettere e nei diari che scrivevano tornano sempre le stesse parole: patria, libertà, giustizia. L’8 settembre 1943 fu per molti di loro una seconda nascita.

Come si rapporta la Resistenza con la guerra civile?

Fu anche una guerra fratricida. Italiani contro italiani. Chi stava coi tedeschi vedeva nei partigiani dei traditori. Chi combatteva in montagna, non riconosceva più come fratello chi difendeva il nazifascismo. Ma, come disse Masaccio, l’obiettivo non era la vendetta: “Solo così potremo pretendere, domani, in nome della giustizia, l’affermazione integrale dei diritti del popolo”.

Ci sono stati episodi simbolici di questa tensione etica?

Sì. Masaccio stesso ne è un esempio. Cresciuto nel fascismo, aprì gli occhi con la cultura. Denunciò la disonestà e chiese “una purificazione delle coscienze”. Anche Toni Adami, partigiano e filosofo, predicava il pacifismo, voleva persino “convertire quelli della Mas”, come raccontò il poeta Andrea Zanzotto. Morì senza aver mai ucciso.

Dopo la Liberazione, fu davvero tutto nuovo?

Lo Stato repubblicano nacque, ma molte strutture fasciste rimasero. L’amnistia di Togliatti funzionò solo parzialmente. Non ci fu una “Norimberga italiana”. La magistratura formata nel fascismo tornò a processare i partigiani. Eppure, la Resistenza lasciò in eredità il valore dell’onestà intellettuale, dell’autocritica, della democrazia.

La memoria della Resistenza è stata sempre condivisa?

Per molto tempo, fu vista con diffidenza, soprattutto nel mondo rurale. La storiografia ha cercato di semplificare dividendo la Resistenza tra guerra di classe, di liberazione e civile. Ma le cose furono più complesse. C’era chi combatteva per la patria, chi per la giustizia sociale, chi solo per sopravvivere. Tutti insieme, però, produssero un’onda di libertà.

In conclusione, professore, cosa resta oggi della Resistenza trevigiana?

Restano le parole d’ordine di Masaccio: onestà, disinteresse, giustizia. Sono queste le coordinate di una memoria che va oltre la cronaca bellica. Una memoria viva, che parla ancora all’Italia di oggi. Una memoria che ci ricorda che la libertà è figlia della giustizia, e non il contrario.

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