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Il grande ruolo dei cattolici nella Resistenza trevigiana, veneziana e padovana

Il contributo alla guerra di Liberazione attraverso l’azione militare (e non solo) è stato ingiustamente sottovalutato. Numericamente, la presenza fu almeno pari a quella dei partigiani di sinistra, con figure di grande valore
17/04/2025

Paolo Emilio Taviani (1912-2001), il democristiano che molti con i capelli bianchi ricorderanno nel suo longevo ruolo di ministro della Repubblica italiana, fu un combattente della Resistenza genovese, nonché presidente della Federazione italiana volontari della libertà. Egli scrisse, nel 1980, un illuminante saggio dal titolo “Cristiani nella Resistenza”. La sintesi iniziale del suo scritto sulle origini e sulle ragioni della Resistenza è ancora attuale.

Vi si legge: “La Resistenza italiana - secondo Risorgimento della Nazione - iniziò nel settembre 1943, nelle giornate più tristi della nostra storia. In fuga il Sovrano e il Governo, in dissoluzione l’esercito e l’aviazione - disorientati da un capovolgimento di fronte non preparato e da ordini equivoci, talvolta contraddittori -; la marina costretta dall’armistizio a raggiungere le basi del nemico di ieri; il popolo, in un primo momento ignaro e non nobilmente festante per la creduta fine della guerra, poi smarrito, agitato, sconvolto: questo il quadro dell’Italia all’alba del 9 settembre.

In quel vuoto, iniziò la Resistenza. Sbocciò spontanea contro l’occupazione straniera, contro i tedeschi. Accanto a loro, dopo le prime settimane di smarrimento, si schierarono i fascisti della cosiddetta «Repubblica sociale». La Resistenza contro l’occupazione straniera diventò così, anche se solo in minima parte, guerra fratricida. Fu questa, tra le responsabilità di Mussolini, la più grave di tutte”.

Tale quadro generale va doverosamente ricordato, anche per respingere ogni tentativo di mettere sullo stesso piano le due componenti in conflitto, il movimento partigiano e i combattenti per il risorto fascismo della Repubblica di Salò, come se si trattasse, per entrambe le parti, di una legittima e speculare scelta politica, mentre in realtà gli uni combattevano per la libertà politica e per la liberazione del suolo nazionale dell’esercito invasore tedesco, gli altri volevano far riaffermare la rinata dittatura fascista, in ciò appoggiati dalle truppe naziste.

La leadership di Bruno Marton

Considerato lo sfacelo, anche i cattolici veneti collegati con il livello nazionale si attivarono per porre le premesse della loro presenza politica locale e organizzarsi in vista del crollo definitivo del fascismo e della ricostruzione del Paese; da Roma, Giuseppe Spataro, stretto collaboratore di Alcide De Gasperi, si rivolse al padovano Mario Saggin, il quale, poi, prese collegamenti col trevigiano Bruno Marton, giovane moglianese impegnato nell’Azione cattolica. Marton rappresentava per Treviso quello che Gavino Sabadin era per il Veneto: il principale punto di riferimento per i cattolici aderenti alla Resistenza, una delle “menti politiche” e il punto di aggregazione tra gli ex Popolari sturziani e i giovani cattolici provenienti da altri percorsi formativi.

Fu così, sotto la guida determinata e ferma di Bruno Marton, che i cattolici trevigiani furono indotti ad aderire alla futura Democrazia cristiana ancora quando vigeva il regime (in case private di Treviso si tenevano riunioni fin dal 1942), per, poi, al momento opportuno, dare il loro contributo concreto alla lotta resistenziale contro il nazifascismo. Molti sacerdoti, parroci e cappellani, parteciparono alle vicende pre-resistenziali di quel periodo in vista della definitiva sconfitta della dittatura, assieme a un nucleo via via sempre più solido di giovani formati all’antifascismo nell’Azione cattolica. I nomi di molti di loro sono nella storia trevigiana. Tra i principali si deve ricordare Domenico Sartor, brillante avvocato da sempre noto per le sue attività cospirative, tanto da essere arrestato già il 20 luglio 1943, cinque giorni prima del crollo del regime. Mesi dopo, nel gennaio del ’45, pure Bruno Marton verrà arrestato dalle Brigate nere e sottoposto a una finta fucilazione, con tanto di plotone d’esecuzione, con la faccia rivolta al muro del cimitero di San Lazzaro. Dalla testimonianza resa da Nino Pavan sappiamo che egli si salvò “grazie ad una dote straordinaria, che Bruno Marton possedeva: quella di avere un incredibile sangue freddo; per cui, nella notte che seguì l’arresto, dopo essere stato picchiato a sangue, trovò la forza di intrattenere, fino al mattino, il comandante delle brigate nere, parlandogli della inutilità della guerra e della sua continuazione, di quello che, invece, spetta all’uomo per migliorarsi, della validità dell’insegnamento evangelico e dello spirito di fratellanza che ci deve sempre animare”. E - proseguiva Pavan - “così guadagna tempo, mentre noi, intimoriti e preoccupati corriamo a nasconderci, la moglie e i famigliari iniziano una novena a San Giovanni Bosco e il buon vescovo Antonio Mantiero, che non conosce umiliazione e si muove di persona a perorare la sua liberazione, che avviene proprio il 31 gennaio, giorno di San Giovanni Bosco”.

Non avevano perso tempo, gli antifascisti trevigiani: il giorno successivo alla caduta di Mussolini, il 26 luglio ’43 si costituì in città un Comitato antifascista, dove a rappresentare la Dc c’erano Bruno Marton e Ruggero Lombardi, futuro parlamentare.

Non molto dopo, il 7 ottobre ’43 fu nel granaio di una canonica del Montello, a Bavaria, che per iniziativa di Marton venne convocato un vertice tra vari esponenti politici, rappresentanti le diverse anime dell’antifascismo trevigiano, veneziano, bellunese e ufficiali dell’esercito delle cosiddette Forze Armate della Patria, allo scopo di dare alla Resistenza una struttura a livello regionale veneto, sotto la guida del colonnello Sassi, un ufficiale di Marina.

Valutando questi avvenimenti, lo storico trevigiano, di orientamento socialista, Ernesto Brunetta, scriveva di ritenere un errore, in sede storiografica, parlare di resistenza al singolare, sembrandogli più opportuno parlare di resistenze diverse con motivazioni ideali e con visioni metodologiche differenti, e - scriveva - “mi sembra che Bavaria sia un esempio che sostiene la tesi”.

Molteplici orientamenti culturali

La molteplicità degli orientamenti cultural-politici delle diverse formazioni partigiane si presentò evidente con immediatezza. Se, da un lato, vi furono le formazioni “garibaldine” egemonizzate dai comunisti, anche grazie alla presenza in esse di un “commissario politico” di orientamento marxista, da un altro versante agivano le formazioni laiche vicine al Partito d’Azione (ispirate, a Treviso, da Leopoldo Ramanzini e Enrico Opocher) e quelle cattoliche; le animavano delle concezioni della lotta ben differenti tra loro, dove i marxisti volevano che l’azione militare fosse immediata e senza tregua, anche se ciò avesse comportato delle rappresaglie sulla popolazione civile, giustificate dall’accelerazione verso la fine della guerra, mentre gli altri preferivano attuare azioni di sabotaggio, evitando, per quanto fosse possibile, di far sopportare i sacrifici di vite umane tra la popolazione.

Il radicamento della Resistenza tra i cattolici del Veneto fu evidente quando, a inizio 1944, dopo l’arresto dei vertici del movimento resistenziale e la deportazione in campo di concentramento di Egidio Meneghetti, di sinistra, la guida a livello regionale passò nelle mani del democristiano Gavino Sabadin, di Cittadella. Fu soprattutto da quel momento in poi che si moltiplicarono le unità combattenti che si richiamavano alla Dc, peraltro senza escludere adesioni miste: una memoria scritta da Giuseppe Caron a Liberazione appena avvenuta parla di sette unità presenti nel Trevigiano, anche se Bruno Marton scrisse in una relazione di fine ’45 che le Brigate dirette dalla Dc erano quattro, riferendosi alla data di fine aprile ’44. Tra le formazioni bianche, la “Brigata Treviso”, costituitasi dopo l’estate ’44, col comando di Aldo Tognana. Anche Agostino Pavan “Nino”, noto futuro sindacalista e deputato, comandò una sua formazione, la brigata “Tito Speri”, attiva nel territorio di Villorba.

Oltre a quelli citati, entrarono nella lotta resistenziale numerosi altri esponenti, destinati a diventare nomi celebri: i castellani Gino Sartor e la giovane staffetta Tina Anselmi (i fratelli Sartor costituirono la brigata “Cesare Battisti”), Ivone Dal Negro nel battaglione “Treviso”, Giuseppe Caron, Luigi Rossetti, futuro presidente dell’Azione cattolica diocesana, Clemente Pantaleoni, Mario Ferracin, Antonio Ferrarese, Ruggero Lombardi, Carlo Grava e moltissime altre figure di primo piano. Nel triangolo Venezia-Treviso-Padova, essi si coordinavano con gli esponenti cattolici delle province contermini, come Celeste Bastianetto di San Donà di Piave, il veneziano Giovanni Ponti e i padovani Mario Saggin, Gavino Sabadin e Luigi Gui.

Tra i fatti più rilevanti dell’azione dei cattolici contro il nazifascismo rientra la costituzione, a Caerano di San Marco, della “Italia libera”, sotto la conduzione di Pubblio Corradi. A Montebelluna la brigata cattolico-repubblicana “Montello” era comandata da Alberto Rizzo. Nella zona del Coneglianese si sviluppò la brigata “Piave” d’ispirazione democratico-cristiana, avviata per impulso di Federico Grava (Deri), figlio del futuro senatore Dc, Carlo Grava, anche lui antifascista e organizzatore della Resistenza; nell’opitergino-mottense ebbe un ruolo significativo la “Osoppo” guidata dal giovane universitario Giovanni Girardini, fino alla sua impiccagione.

In Provincia di Treviso la presenza di militanti nella Resistenza fu quantitativamente almeno pari a quella delle sinistre, con proprie formazioni in armi, con migliaia di partigiani combattenti e con più numerosi “patrioti” ad affiancarli.

La salvezza degli ebrei

L’azione del cattolicesimo trevigiano, clero e laici assieme, intanto si prodigava anche verso un altro importantissimo obiettivo: la salvezza degli ebrei perseguitati e destinati allo sterminio. Nelle sue “Memorie sacerdotali, sociali, belliche e partigiane”, il grande sacerdote sturziano, don Ferdinando Pasin, ha raccontato: “[Mi ero] confidato col rag. Marton, allora residente a Mogliano e ci trovammo d’accordo a preparare due timbri, uno lineare e l’altro rotondo, da usare secondo i casi, figurando il domicilio di Bari, per evitare la possibilità di controllo, dato che i tedeschi si erano ritirati al di qua di Roma e quindi era interrotta ogni comunicazione”. I timbri dovevano servire per il salvataggio degli ebrei. Ottennero trecento carte d’identità dal segretario comunale di Volpago e cominciò una catena che - scriveva sempre don Pasin - “malgrado la preoccupazione mia e dell’amico Marton, non sembrava limitarsi a pochi, perché gli ebrei si trasmisero tra loro la notizia. Vennero, così, salvati ebrei di Treviso, di Conegliano, di Vittorio Veneto, di Trieste, di Gorizia, di Venezia, di Padova e altre località, in numero di ben 243!”. Per questi interventi, don Ferdinando Pasin fu insignito, nel febbraio del 2000, del titolo di “Giusto tra le Nazioni”, con menzione del suo nome nel Muro dei Giusti a Yad Vaschem, il museo dell’Olocausto di Gerusalemme.

Lo ribadiamo: nel complesso, il contributo dato concretamente dai cattolici trevigiani alla guerra di Liberazione attraverso l’azione militare (e non solo) è stato ingiustamente sottovalutato dalla vulgata corrente della storiografia. La documentazione rimasta è, però, significativa, e testimonia il grande impegno etico onorato dai cattolici trevigiani per la sconfitta della dittatura e per porre le basi dello sviluppo di un futuro democratico.

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