sabato, 23 novembre 2024
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Giornata della memoria: “Ad Auschwitz si è toccato l’abisso”

Intervista a Michele Andreola, che ha lasciato l’Italia per fare la guida nel museo statale di Auschwitz-Birkenau

Andare a vivere in Polonia per lavorare ad Auschwitz, nel campo di concentramento più grande realizzato dal nazismo, simbolo della Shoah, dove vennero sterminati oltre un milione di ebrei.

E’ la scelta di vita fatta da Michele Andreola, 56 anni, di Varese, con la mamma originaria di Padova. Nel 2012 ha lasciato l’Italia per andare a vivere Oswiecim - in tedesco Auschwitz - e svolgere il lavoro di educatore-guida presso il museo statale di Auschwitz-Birkenau, dove ogni anno si contano due milioni e mezzo di visitatori, con gli italiani al quarto posto dopo polacchi, visitatori di lingua inglese e statunitensi.

Michele, come è arrivato a fare la guida ad Auschwitz?

Io accompagnavo gruppi italiani a visite-studio qui ad Auschwitz e quando ho sentito che il Museo cercava educatori-guide di lingua italiana, mi sono detto “perché no?”. Ho fatto qui gli studi necessari, ho ottenuto le abilitazioni e così ho deciso di cambiare vita, lasciare l’Italia e trasferirmi qui. A spingermi è stata la passione per questa pagina di storia, o meglio, per questo fatto umano.

Cosa rappresenta Auschwitz per lei?

Rispondo citando la frase di un ex deportato, Casimier Albin: “Non vogliamo che il nostro passato sia il futuro dei nostri figli”. Per me è importante aver studiato quel che è accaduto qui e poterlo raccontare, perché Auschwitz è stato il punto più basso toccato dall’umanità. Questo luogo ci dice qualcosa di importante: cosa è riuscito a fare l’essere umano... Certo, vedendolo, visitandolo, questo luogo non ci potrà mai dare risposte sul “perché”. Piuttosto i luoghi come Auschwitz creano domande. Io dico sempre che Auschwitz non si visita, Auschwitz si deve “attraversare”. La visita può essere un’esperienza sì triste, ma che finisce lì. Però entrare ad Auschwitz è come entrare nel passato per poi tornare al nostro presente, nel quale portare qualcosa di quel che abbiamo visto.

Quali reazioni constata solitamente nei visitatori, giovani e adulti?

Ci sono reazioni molto diverse. La gran parte dei visitatori non viene qui per caso. I giovani, specialmente, arrivano qui preparati ed è importante che vedano con i loro occhi quel che hanno studiato sui libri, anche se è impossibile immaginarsi prima quel che si vedrà qui. Da una parte c’è la voglia di conoscere, d’altra parte i giovani faticano a credere, ad accettare... Ad esempio, quando mostriamo loro le due tonnellate di capelli umani, tagliati ai prigionieri prima di ucciderli con il gas per poi venderli ad aziende tedesche a mezzo marco al kg per fare tessuti o altro. Oppure quando li facciamo passare davanti ai forni crematori: la maggior parte distoglie lo sguardo. Così accade di vedere ragazzi di 17-18 anni che crollano e scoppiano a piangere. In questi anni credo di aver fatto da guida ad almeno 20-30 mila ragazzi; credo che se noi adulti non li roviniamo, se il futuro è rappresentato da loro e li lasciamo agire, avremo un buon futuro.

Cosa li colpisce maggiormente?

Quello che colpisce sono le “prove” del crimine, gli oggetti custoditi nel blocco 5: migliaia di occhiali, protesi, 12 mila pentole, 110 mila scarpe di tutte le misure, oggetti personali appartenuti a chi veniva internato nel campo. Tutti oggetti che resteranno “testimoni” per sempre, anche dopo che non ci saranno più sopravvissuti a poter testimoniare. Un altro luogo che colpisce è la cella 18, al blocco 11, dove venne ucciso san Massimiliano Kolbe, che compì un gesto eroico, da santo, un gesto di grande umanità in un luogo di totale disumanità, offrendosi di morire al posto di un padre di famiglia. Il suo gesto è stato un importante esempio di resistenza, che ha dato forza anche agli altri internati, facendo vedere che c’era ancora umanità.

Dall’immensa tragedia dei campi di concentramento nazisti sono trascorsi ormai 80 anni, durante i quali si sono registrate tante forme di crudeltà e disumanità assai simili, fini alle guerre in corso oggi. Come si può spiegare ciò?

Io sono convinto che l’essere umano nasca buono, poi è il contesto a portarlo a peggiorare... Purtroppo, se osserviamo, quel “mai più” che fu pronunciato alla fine della seconda guerra mondiale non c’è mai stato. Qui nel blocco 4 c’è scritta una frase di un filosofo spagnolo: “Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo”. Forse la risposta è proprio lì: se non ci ricordiamo del passato, oppure lo interpretiamo a modo nostro, secondo i nostri interessi, può accadere di nuovo.

Tuttavia, è più facile a volte commuoverci per fatti avvenuti nel passato, di cui siamo solo spettatori, piuttosto che davanti ad immagini ed eventi di oggi, riguardo ai quali non siamo più spettatori, ma attori principali. Dopo aver visto quel che è accaduto in luoghi come Auschwitz, siamo tutti chiamati a vivere in modo coerente con quello che abbiamo provato là. Abbiamo sempre la responsabilità di agire secondo la nostra libera coscienza. E’ una libertà che non ci potranno mai togliere.

Secondo lei la Giornata della memoria è sufficiente per favorire una cultura che impedisca mostruosità come i campi di concentramento? Quali altre strade si potrebbero percorrere?

La Giornata non basta! E’ importantissima, ma chiaramente non basta. Come non basta una legge, come non basta in quel giorno piangere le vittime, raccontare quel che è accaduto. Secondo me è importante, come è scritto anche nella legge di istituzione della Giornata, ricordare anche tutti quelli che si sono opposti allo sterminio e, a rischio della propria vita, hanno salvato altre vite. Dobbiamo ricordarci che oggi non siamo sotto alcun totalitarismo e quindi abbiamo l’opportunità, in base alla nostra libera coscienza, di fare le nostre scelte. Non dobbiamo nasconderci dietro il “ma io cosa posso fare? Chi decide sono sempre gli altri”. I Giusti tra le Nazioni non si sono fermati..., hanno agito, hanno salvato persone. Questa Memoria non dev’essere una Memoria solo legata alla stretta conoscenza del passato, ma dev’essere “dinamica”, per essere chiave di accesso per il nostro futuro, nel senso che chi visita luoghi come Auschwitz al di fuori di quel luogo deve fare la differenza.

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