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Dante profeta di speranza

Quale rapporto ci fu tra Dante Alighieri e i papi del suo tempo? Non poteva non condannarli, dall’alto del suo “magistero” morale. E cosa pensano i papi moderni del ruolo e dell’opera del sommo poeta? Papa Francesco, nel VII centenario della morte di Dante, ha scritto la lettera apostolica “Splendore della luce eterna”

“Se’ tu già costì ritto, / se’ tu già costì ritto, Bonifazio?”. Coi papi del suo tempo, immagine della decadenza della Chiesa, Dante va giù di randello. Li caccia all’Inferno, nel girone dei simoniaci (canto XIX). Degni compari di Simon Mago che cercò di comperare dagli apostoli la capacità di operare miracoli. Non c’è Pietro da Morrone, Celestino V, che, dimettendosi, spianò la strada a Bonifacio VIII. E non è certo che sia colui “che fece per viltàde il gran rifiuto” (Inferno, III, 60).

I papi in vita stravolsero il loro ruolo e qui stanno impiantati in buchi scavati nella pietra, a testa in giù. Chi parla è papa Niccolò III (al secolo Giovanni Gaetano Orsini, papa dal 1277 al 1280). Non vede e quindi pensa che chi fa rumore “là fuori”, vicino ai suoi piedi, sia papa Bonifacio (Benedetto Caetani, 1294-1303). Caetani istituì il Giubileo (1300), evento di enorme significato religioso, ma anche di grande portata economica soprattutto per l’avvilente commercio delle indulgenze. Insomma Dante (il suo viaggio nell’oltretomba è immaginato tre anni prima della morte di Bonifacio) trova il modo di dire che anche il papa in quel momento ben vivo sul soglio è destinato alla dannazione.
Non va meglio a Clemente V (Bertrand de Got, 1305-1314), il papa che assunse la tiara come simbolo del potere. E che soprattutto sfregiò la Chiesa portandone la sede ad Avignone, in Provenza, dove rimase per più di mezzo secolo (1309-1377). La cosiddetta cattività avignonese.

Cattività significa prigionia: dei re di Francia? Petrarca sembra pensarla diversamente e parla (componimento 114 del Canzoniere) di esilio in una Babilonia, biblica cittadella del vizio. Chi è stato ad Avignone sa che di prigionia dorata si trattava. Il palazzo dei papi era una sorta di Bengodi. Per dire, un’enorme stanza è adibita a barbecue (il soffitto è un immenso camino) per quotidiani menù da decine di portate.

Dante vide, conobbe. Non poteva non condannare. Dall’alto del suo “magistero” morale, del suo impegno etico, civile e politico. Il papa deve fare il suo mestiere, occuparsi di anime. Lasci che sia l’imperatore (si intende di Germania, erede del Sacro Romano Impero) a occuparsi di politica.
Le interferenze tra le due sfere provocano disordini e guerre. Ma che rapporti hanno i papi moderni col fustigatore della curia romana? E ne hanno recuperato il messaggio?
Papa Francesco in una sua lettera apostolica (25 marzo 2021) fa di Dante un’icona assoluta, un profeta di speranza. Scrive: “Dante, rileggendo… alla luce della fede la propria vita, scopre anche la vocazione e la missione a lui affidate, per cui, paradossalmente, da uomo apparentemente fallito e deluso, peccatore e sfiduciato, si trasforma in profeta di speranza. Nell’Epistola a Cangrande della Scala chiarisce, con straordinaria limpidezza, la finalità della sua opera, che si attua e si esplica non più attraverso azioni politiche o militari ma grazie alla poesia, all’arte della parola che, rivolta a tutti, tutti può cambiare”. Il documento, di straordinaria lucidità, si intitola Candor lucis aeternae. Dante riconosce in sé la fragilità dei suoi contemporanei. Porta davanti a Dio il dramma personale e quello del suo tempo. Lacerato, dominato da odi radicali. E apparentemente, se non da un intervento divino, inestirpabili.
Il Papa, che ha il nome del santo di Assisi, non poteva non accennare a Madonna Povertà, colei che “dove Maria rimase giuso, / ella con Cristo pianse in su la croce” (Paradiso, XI, 71-72).

La sposa nelle parole di Francesco. “C’è profonda sintonia tra Francesco e Dante: il primo, insieme ai suoi, uscì dal chiostro, andò tra la gente, per le vie di borghi e città, predicando al popolo, fermandosi nelle case; il secondo fece la scelta, incomprensibile all’epoca, di usare per il grande poema dell’aldilà la lingua di tutti”. Certo non fa meraviglia in un papa controcorrente. A stupire è il papa del precedente centenario, il 1921. Benedetto XV (dunque il predecessore di Ratzinger nella lista dei Benedetti, Giacomo Paolo Giovanni Battista della Chiesa, 1914-1922) è un papa “dimenticato”. A torto, ma non per caso: pontefice del primo conflitto mondiale, ne fu incrollabile oppositore. Imperdonabile, nella retorica patriottarda. Benedetto XV dedicò addirittura un’enciclica (30 aprile 1921, l’undicesima di un papa che ne produsse ben 12) al centenario dantesco, In praeclara summorum. Uno tosto: l’anno prima, Benedetto Croce aveva pubblicato “La poesia di Dante” e l’enciclica risponde all’appropriazione istituzionale da parte del critico che era anche ministro della cultura.

Rivendica il diritto della Chiesa di “chiamare suo l’Alighieri” e ricorda i lavori di restauro della cappella che conserva le ceneri del poeta. Si rivolge ai professori e agli alunni delle scuole cattoliche perché mettano Dante al centro del lavoro didattico.
Nella sua opera “risplendono la maestà di Dio Uno e Trino, la Redenzione del genere umano operata dal Verbo di Dio fatto uomo, la somma benignità e liberalità di Maria Vergine Madre, Regina del Cielo, e la superna gloria dei santi, degli angeli e degli uomini”.

Con un sontuoso riconoscimento di modernità: “Quantunque separato da noi da un intervallo di secoli, conserva ancora la freschezza di un poeta dell’età nostra; e certamente è assai più moderno di certi vati recenti, esumatori di quell’antichità che fu spazzata via da Cristo… Spira nell’Alighieri la stessa pietà che è in noi; la sua fede ha gli stessi sentimenti… Questo è il suo elogio principale: di essere un poeta cristiano e di aver cantato con accenti quasi divini gli ideali cristiani… coloro che osano negare a Dante tale merito e riducono tutta la sostanza religiosa della Divina Commedia ad una vaga ideologia…, misconoscono certo nel Poeta ciò che è caratteristico e fondamento di tutti gli altri suoi pregi”.
Come dire: si tiri da parte D’Annunzio, vate di seconda scelta. Quanto all’accanimento contro i suoi predecessori “si deve pur compatire un uomo, tanto sbattuto dalla fortuna, se con animo esulcerato irruppe talvolta in invettive che passavano il segno, tanto più che ad esasperarlo nella sua ira non furono certo estranee le false notizie… chi potrebbe negare che in quel tempo vi fossero delle cose da rimproverare al clero, per cui un animo così devoto alla Chiesa, come quello di Dante, ne doveva essere assai disgustato, quando sappiamo che anche uomini insigni per santità allora le riprovarono severamente?”. Dante un poveraccio sbattuto dagli eventi, insomma. E, per il resto, non aveva tutti i torti.

A Ravenna c’è un altro Dante
C’è un “altro” Dante, oltre l’autore della “Divina Commedia” e della “Vita Nuova”. Nella pubblicità, nelle figurine, nei romanzi, nei film, nelle parodie, nei giochi e nei videogiochi, nei libri di testo, nei fumetti, nei francobolli, nelle interpretazioni di illustratori antichi e moderni. Una “sottoletteratura” ben narrata da una mostra al Museo d’arte di Ravenna (Mar) nel complesso della Loggetta Lombardesca, Dante, un’epopea pop. L’ha curata Giuseppe Antonelli, che insegna linguistica italiana a Pavia, e si articola in più sezioni: Dante a memoria, Dante per immagini, Dante al cinema, Dante in parodia, Dante in gioco, Dante in vendita, Dante personaggio (con gigantografia di Mike Bongiorno in versione dantesca e perfino coronato di alloro), Dante icona, Dante a scuola, Dante e Beatrice.
Nella foto di questa pagina, troviamo Dante Alighieri “testimonial” della Olivetti. E’ un manifesto del 1912, firmato da Teodoro Wolf Ferrari che la mostra ha scelto come propria icona. Aperta fino al 9 gennaio 2022 (biglietto 10 euro, catalogo curato dalla Silvana editoriale, info www.mar.ra.it, 0544482477).

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