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Caporetto, una storia tutta da scrivere

“Caporetto, 1917 - 100 anni” a Paese è il titolo della mostra fotografica, con cinquanta immagini dell’epoca, molte inedite, che ripercorrono il succedersi di quei giorni amari: visi smarriti e territori invasi. Alla esposizione si è accompagnato un convegno, tenutosi sabato 4  novembre a villa Panizza, per rileggere, a cento anni di distanza da quei drammatici momenti, le vicende militari, ma anche quelle sociali e umane

09/11/2017

Date e nomi che marcano la Storia. Che la segnano a tratti indelebili, dietro i quali continuano a vivere uomini e vicende con la loro grandezza  e la loro miseria.
Disegnati da un destino che corre sopra la scansione delle stagioni e del tempo.
Date e nomi che ci appartengono e scrivono il senso del nostro essere una nazione, autentici luoghi della memoria per custodire la nostra identità nazionale.
“Far festa perché...?”:
il nostro 4 novembre
Tra queste date, sicuramente il 4 novembre di ogni anno, che celebra l’avventura italiana alla fine di una guerra che avrebbero definito “grande”, una “vittoria”, anche se di quei giorni Benedetto Croce, qualche mese dopo, con evidente realismo, avrebbe scritto “Far festa perché...? La nostra Italia esce da questa guerra come da grave e mortale malattia, con piaghe aperte, con debolezze pericolose nella sua carne”.
Dopo quegli anni la Storia dell’intera Europa avrebbe preso una svolta assolutamente imprevedibile: da lì a poco sarebbero nati dittature e totalitarismi con i loro carichi di intolleranza e liberticidio.
E al 4 novembre, quasi un “ossimoro”, direbbero i linguisti, viene associato Caporetto, una tragedia tutta italiana vissuta nell’ottobre del 1917, all’interno della dodicesima battaglia dell’Isonzo, quando sul versante del Nord est irrompe, tragico e grave, l’urto austroungarico.
E fu Caporetto, una pagina di storia che ancora ci interroga. Che attende di essere finalmente riletta e, forse, riscritta alla luce della più recente storiografia che finalmente comincia a liberarsi dai vecchi stereotipi che l’hanno nel passato raccontata.
Lo hanno fatto, con “Caporetto, 1917. 100 anni”, una mostra aperta fino al 24 novembre – cinquanta immagini dell’epoca, molte inedite, che come in un film ripercorrono il succedersi di quei giorni amari: immagini di visi smarriti, di territori invasi. Foto il cui valore storico va ben al di là della semplice testimonianza che con il loro silenzio sono ancora loquaci ed espressive, capaci di suggerirci qualcosa che ognuno leggerà nella sua anima.
Alla mostra di Paese si è accompagnato un convegno, anzi un “colloquio storico”, come l’hanno voluto definire, progettato sabato 4 novembre, ospitato nella splendida Villa Panizza, dal dottor Sergio Tazzer, giornalista e scrittore, già direttore della sede Rai del Veneto e attuale direttore del Cedos, con l’organizzazione della Pro loco e della Biblioteca comunale e il patrocinio del Comune di Paese.
Ospiti un panel di storici di apprezzabile livello, tra cui Paolo Pozzato, Danilo Gasparini, Paolo Gaspari, suor Albarosa Ines Bassani che hanno arricchito l’analisi storica del “fenomeno Caporetto” per rileggere, a cento anni di distanza da quei drammatici momenti, non soltanto le vicende militari, ma anche quelle sociali e umane.
Soprattutto per fare giustizia dei frequenti luoghi comuni di cui si nutre la manualistica attuale che assai spesso - di proposito, forse (?), o per pura approssimazione - tace su aspetti e momenti importanti di quella vicenda, perché, si sa, assai spesso la storia la scrivono i vincitori e a Caporetto non siamo stati vincitori, ma sconfitti.
Fu una “disfatta” o semplicemente una sconfitta?
Così, il dott. Gaspari - decine di libri, vent’anni di ricerche su “Il senso della patria nella Grande guerra” (2014), “La battaglia dei capitani” (2014), “la Grande guerra italiana. Le battaglie (2015); Rommel a Caporetto” (2016) -,  nel suo intervento tutto declinato sull’aspetto prettamente militare, ha ribadito forte che Caporetto, la battaglia più importante della storia italiana, è avvolta a tutt’oggi da una nebbia fitta e impenetrabile di bugie, frutto di pregiudizi che ignorano di proposito tanto preziose fonti archivistiche, quanto i principi più elementari di un’onestà intellettuale e storica  per legare Caporetto ad una memoria che si direbbe “dannata”.
A cento anni di distanza, aggiunge Gaspari, «per la maggior parte  degli italiani Caporetto è soltanto  una condizione mentale», è purtroppo divenuto sinonimo di crisi morale e di disfatta, – «ma cos’è una disfatta, si domanda lo storico? A Caporetto l’esercito italiano fu “disfatto” o semplicemente sconfitto?».
E’ tempo ormai, ha concluso Gaspari, che si dica il vero su quanto successo nell’ottobre di quel ‘17, in quel lembo del Nord est italiano e che le giovani generazioni sappiano che «a Caporetto accadde esattamente il contrario di quanto finora detto e scritto», perché «nescire quid accidere it antequam natus sis, est tamquam non vivere» ammonisce Cicerone – ignorare ciò che è avvenuto prima della tua nascita, è come non vivere.
Tutto incentrato sull’aspetto socio-economico è stato l’intervento del prof. Gasparini, docente di Storia dell’agricoltura e dell’alimentazione all’università di Padova.
Il suo “Guerra, agricoltura e fame” ha contribuito non poco ad arricchire la panoramica sociale con tabelle, grafici, resoconti, testimonianze, che il tempo ha  ormai ingialliti,  con il racconto delle sofferenze che la guerra ha comportato non soltanto tra le popolazioni invase dalla furia austroungarica, ma tra le retrovie, nel cosiddetto “fronte interno”, costretto a conoscere una rigorosa politica annonaria, che ovviamente prevedeva la “carta annonaria” o “tessera della fame”, nella vulgata popolare, la requisizione di beni, una  disciplina alimentare fatta di razionamento di viveri, altrimenti sottratti al fronte, di sequestri di macine e mulini.
Anni di estrema penuria, di derrate alimentari, di quasi inesistente allevamento. Anni di fame. Caporetto è “l’anno della fame” nel ricordo dei pochissimi sopravissuti: una fame inappagabile, feroce, arrabbiata, di forzato digiuno, di progressivo deperimento, di stenti infiniti e di morte.
Con trecento donne pazze
e un gruppo di orfanelle
Ha chiuso l’interessantissimo incontro suor Albarosa Ines Bassani, delle Suore Maestre di Santa Dorotea di Vicenza (una delle due donne chiamate nella Congregazione delle cause dei santi, ndr), per proporre una storia di coraggio e  di dedizione, tutta scritta al femminile, da religiose capaci, nel loro donarsi, di coniugare patriottismo e religione cattolica. Una storia di dolore e di avventura illuminata da straordinari atti di generosità» che si inscrivono in quella sorta di epica delle donne in guerra, ricorda Alba Lorenzetto dell’Università di Padova.
Una storia raccolta dal diario di suor Gertrude, all’epoca responsabile dell’ospedale e dell’orfanotrofio di Valdobbiadene. Suor Albarosa racconta l’avventura di queste donne consacrate in una Valdobbiadene invasa e poi in Friuli, rimaste sole ad accudire un gruppo di orfanelle e trecento donne pazze, a due passi dal fronte, sotto le bombe e l’incalzare di granate e mitragliatrici.
Una storia di sacrificio senza riserve che sarebbe assurdo considerare minore nella grande tragedia che si chiama Caporetto.
E’ “L’altra Caporetto”, come evoca il titolo seguito da bellissime pagine che annodano le vicende raccontate e raccolte in un preziosissimo volume di recente proposto da Gaspari editore.
Un altro frammento di una storia più grande che pochi conoscono nella sua interezza e nelle sue pieghe più intime.

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