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Ai e teologia: un ossimoro?

Il tradizionale “Corso speciale” dell’Istituto Teologico “Giuseppe Toniolo” ha cercato di affrontare questo nodo, che si colloca nell’ambito del rapporto tra Vangelo e cultura tecno-scientifica

C’è un modo meno banale di integrare la tecnologia dell’intelligenza artificiale con l’esperienza religiosa rispetto a creare un ologramma di Gesù e piazzarlo dentro un confessionale, come è successo in una chiesa a Lucera (Svizzera)? La risposta, ovviamente,è sì. Solo che bisogna pensarlo bene, quel modo. A questo (anche) serve la teologia. È un diffuso luogo comune pensare che il pensiero teologico si occupi di argomenti tanto nobili e un po’ astratti quanto inarrivabili come l’anima e il suo destino, la natura dei sacramenti, la pericoresi trinitaria, ecc. Qualora si cimentasse con un argomento di attualità come l'intelligenza artificiale sarebbe pronta subito l’obiezione: ecco un ulteriore segnale della decadenza della teologia dei nostri giorni, che cede al tema di moda del momento e all’apparato tecnocratico! Siamo certi che le cose stiano proprio solo così? Non è, invece, forse un modo per evitare di fare i conti con la realtà, e cioè che la teologia si trova oggi di fronte a delle sfide che riguardano più ampiamente il confronto dell’umano con la dimensione della scienza e della tecnica, a lungo rinviato e quasi rimosso nei curricula accademici?

Il tradizionale “Corso speciale” dell’Istituto teologico “Giuseppe Toniolo” ha cercato di affrontare questo nodo, che si colloca nell’ambito del rapporto tra Vangelo e cultura tecno-scientifica. I relatori intervenuti hanno mostrato come la questione non sia prima di tutto e anzitutto etica, cioè come dare oggi un'etica a un’intelligenza artificiale (Ai) che rischia di sfuggire di mano, ma di pensare il fenomeno della tecnica per se stesso. D’altra parte, di fatto, i racconti evangelici riportano che anche il bambino Gesù è stato “avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia” (Lc 2,12), dettagli che alludono ad artefatti della tecnica, per quanto rudimentali.

Il pensiero teologico si trova di fronte alla sfida di ripensare le categorie fondamentali del cristianesimo in modo più integrale e transdisciplinare

Giocando a lungo in difesa, la teologia si è privata di un’opportunità di riflessione, dimenticando che la maggior parte del tempo dell'incarnazione del Verbo, per usare il linguaggio più tradizionale, è stata spesa lavorando. Gesù per trent’anni ha fatto il téktôn, termine usato per indicare artigiani e lavoratori del legno (e quindi si può tradurre come “falegname”). Questo dato, che appartiene al mistero della Rivelazione, rimane un vero e proprio impensato teologico e non è certo sufficiente “coprirlo” celebrando il silenzio dei trent’anni di Nazaret. Quel tempo non è stato semplicemente preparatorio al “ministero pubblico” di Gesù, ma un tempo in cui il Verbo ha agito in modo pienamente umano. L’ostacolo che pregiudica il pensiero teologico sulla tecnica è la fatica di pensare anche l’artefatto tecnologico come possibile locus teologico (Benanti), cioè come possibile ambito di ricerca dell’apparire di Dio. Ma la tecnica e l'artefatto tecnologico, compreso quello algoritmico, sono espressioni dell’umano, di quella creazione che Dio stesso ha affidato alla responsabilità della donna e dell’uomo, come viene raccontato nelle prime pagine della Genesi, ha ricordato don Luca Peyron (Pastorale digitale di Torino, nella foto in alto a destra). Oltre a mettere in guardia nei confronti dei possibili squilibri etici e antropologici che l’uso (e l’abuso) dell’intelligenza artificiale può comportare, il pensiero teologico si trova di fronte alla sfida di ripensare le categorie fondamentali del cristianesimo, in modo più integrale e transdisciplinare.

Andando “dentro” Ai, e dimostrando come si tratti di nuovo capitolo del rapporto tra scienza e fede, il prof. Alessandro Mantini (Università Cattolica di Roma) ha ricordato la necessità di vigilare sul linguaggio, ad esempio nell’uso dell’aggettivo “generativo” in riferimento alle nuove generazioni di Ai. La produzione di valori e dati non è paragonabile alla “generazione” in senso antropologico (men che meno in senso divino). Più correttamente (e rinunciando al marketing) non si dovrebbe parlare di “intelligenza artificiale”, ma di “elaborazione artificiale”, che costruisce interconnessioni e non interrelazioni. Ciò non significa misconoscere la rilevanza antropologica della tecnica, ma riconoscere che fin dall’invenzione della scrittura, l’uomo ha sperimentato la tecnica come pharmakon, cioè insieme come rimedio e possibile veleno. Occorre cogliere la possibilità di una tecnologia come Ai per creare una coscienza maggiormente umana, ha sottolineato don Ferruccio Ceragioli (Facoltà Teologica di Torino), critica verso le nuove “potenze dell’aria” che portano il nome di Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft) e attenta alle persone più che ai profitti aziendali. Anche in questo ambito è necessario tornare alla realtà, a rieducare alla semplicità evangelica dello sguardo di Gesù, “primogenito di una moltitudine di fratelli” (non di cyborg).

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