Questo tempo particolare, che ci vuole preparare nella duplice attesa del Natale del Signore e del suo...
Il Giubileo e la Bibbia: pagine intrise di speranza dedicate a noi
Qual è la missione di ogni credente in Cristo? E’ semplice, secondo la biblista Antonella Anghinoni: “E’ diventare un narratore, una narratrice di speranza. Ce lo dice Pietro nella sua prima Lettera: Siate sempre pronti a rispondere a chi vi chiede ragione della speranza che è in voi (1 Pietro, 3, 15). Ce l’abbiamo, noi cristiani, questa speranza, e questa gioia, che è Gesù Cristo risorto e vivente tra noi. E lo dobbiamo raccontare, soprattutto con la nostra vita. E’ tutto qui”. Un passato nelle relazioni pubbliche aziendali, Antonella Anghinoni, a un certo punto della sua vita, si appassiona alla Teologia e allo studio della Bibbia, e oggi è una comunicatrice “innamorata delle Scritture”, oltre che curatrice di incontri biblici e ritiri in Italia e all’estero.
Dottoressa Anghinoni, possiamo definire la Bibbia un testo di speranza?
Assolutamente sì, perché anche dopo pagine tristi o di grande violenza, c’è sempre una luce, uno spiraglio, Dio interviene, non abbandona mai. Nella storia della salvezza c’è sempre un’apertura, uno spiraglio di luce in fondo al tunnel. Nell’Antico Testamento la speranza è espressa da una gamma di verbi e vocaboli che esprimono attesa, aspettativa soprattutto di una vita piena, di una felicità che è dono della benedizione di Dio. Nel Nuovo Testamento la terminologia della speranza è espressa essenzialmente dal verbo elpízo e dal sostantivo elpís, che indicano attesa del futuro, fiducia, perseveranza nell’attesa, anche del messia.
Già questo dice una differenza tra Antico e Nuovo Testamento riguardo al concetto di speranza?
Noi cristiani speriamo nella risurrezione in Gesù, che è risorto per primo. Gli Ebrei speravano in Dio e avevano fede in Dio, si appoggiavano a lui, attendevano il messia. Per noi, il messia è arrivato, e quindi le nostre speranze sono tutte in Gesù Cristo. Ecco perché la Prima lettera di Pietro si chiede chi potrà farci del male. E, se anche dovessimo soffrire, ci dice che siamo beati. Non solo, ci invita a essere “pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi”. Noi dobbiamo diventare narratori di speranza, una speranza che non delude.
Nell’Antico testamento Abramo è forse il primo uomo che incarna la speranza, è “saldo nella speranza contro ogni speranza”, contro ogni umana aspettativa, destinatario di grandi promesse, senza che umanamente ci fossero i presupposti per la loro realizzazione...
Le promesse di Dio ad Abramo sono state due: la terra e il figlio. La terra la abitavano altri: c’erano i Cananei nel paese che Dio gli aveva destinato. E poi, aveva una moglie sterile: come per lei era impossibile diventare madre, ugualmente per lui era impossibile diventare padre attraverso Sara. A un certo punto, dopo anni, Abramo chiede conto a Dio delle sue promesse... e Dio le conferma: avrà un figlio da Sara e la sua discendenza sarà numerosa come le stelle del cielo. C’è una promessa, una speranza che sostiene Abramo, e che ha una radice forte. E’ interessante notare che tutte e due le promesse di Dio ad Abramo si realizzeranno tramite sua moglie, Sara. Il figlio passa dalla sua pancia, e la terra, il primo pezzettino di terra promessa, comprato da Abramo, è quello della tomba di Sara. Possiamo dire che il nostro partner a volte è il paradiso e a volte può essere il nostro “inferno”, però Dio, attraverso di lui, realizza le promesse che ha fatto a noi.
Qual è la radice della speranza nell’Antico Testamento?
E’ la fede nelle promesse di Dio, è la fede di Abramo. La speranza ci fa anche vedere l’invisibile, perché a volte le promesse di Dio sono invisibili e impossibili. A me piace l’esempio della corda tesa. L’ebraico parte sempre da cose concrete e, nel tempo, la parola corda (tiqwah) arriva a significare “speranza”. E’ bello pensare che la speranza ha “un animo di corda”. Quando tu vedi una corda tesa, ma non chi la tiene, sei certo, però, che qualcuno la regge, anche se non vedi la persona all’altro capo: la speranza ti fa vedere l’invisibile. E la corda è anche quella che tiene attraccata la nave al porto. Quindi, mi piace pensare che, se noi ci leghiamo a quella corda nelle maree della nostra vita, siamo sicuri che quella corda non ci molla, ma ci tiene legati al porto. Nei Padri della Chiesa, nella rilettura cristiana dell’Antico testamento, quella cordicella rossa è il sangue di Cristo, il simbolo della salvezza: la speranza è salvezza, perché noi speriamo che Dio ci salvi, sia su questa terra, sia per l’eternità.
Diverse donne della Bibbia sperano malgrado la disperazione, il buio delle situazioni che vivono, e sono figure luminose per il popolo d’Israele. Ce ne presenta una?
Raab è la donna nella cui storia ricorre la speranza, in cui troviamo il termine corda. La storia di Raab ci racconta che la speranza è una cordicella, un filo: la corda con cui fa scendere gli esploratori, mandati da Giosuè, dalla finestra della sua casa fin dentro le mura di Gerico e, poi, il filo rosso con il quale rende riconoscibile la propria casa perché fosse risparmiata la sua famiglia all’interno. Lei è una prostituta che salva Israele, quando il popolo entra nella terra promessa. Là dove la vita d’Israele è minacciata dal nemico, insorgono delle donne, rianimano il coraggio del popolo e riaprono l’avvenire. Raab entrerà a pieno titolo nella storia della salvezza: è citata nella genealogia di Gesù, nel Vangelo di Matteo, ed è citata anche nella lettera di Giacomo, come colei che, siccome ha compiuto le opere, è salva. Lei ha salvato ed è salva. Raab è la donna più importante per la speranza. Poi c’è Lea, che ha sperato nell’amore, e ha continuato ad amare come se avesse dovuto vincere l’odio con l’amore, e molte altre donne insieme a lei.
Nel Nuovo Testamento, poi, abbiamo il grande racconto della speranza delusa: quella dei Discepoli di Emmaus. Perché è così difficile per loro sperare?
Gesù è morto e loro se ne stanno andando. L’hanno visto in croce e, quindi, la speranza è delusa: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele”. Lo vedono crocifisso e la loro speranza è finita. A un certo punto, però, la prospettiva cambia perché lo vedono, lo riconoscono. Non subito, però, perché non avevano speranza e gli occhi senza speranza sono occhi che non vedono. Bisogna credere per vedere, e loro, anche se hanno davanti il risorto, non se ne accorgono, perché i loro occhi sono bui, senza la luce che dà la speranza. Nella Bibbia, la cecità ha anche un significato spirituale: è non vedere più il progetto di Dio su di te. Si sono accorti che era Gesù perché hanno avuto un moto di cuore, qualcosa gli ardeva dentro. E dopo, quando lui sparisce, si rendono conto, quando spezza il pane e benedice si rendono conto che è lui.
La chiamata dei cristiani, allora, è a rendere ragione della loro speranza?
E’ la nostra vocazione, la chiamata centrale, da vivere nella gioia, come ci dice san Paolo nella Lettera ai Romani. Se tu non hai una speranza certa, ti lasci coinvolgere dalle dinamiche di paura del mondo. La speranza certa, invece, ha delle fondamenta nella risurrezione talmente forti che, qualsiasi cosa succeda, tu non ti sposti, sei radicato nella tua fede, nella tua speranza. Fede in Gesù Cristo, non in altre cose. La speranza è gioiosa per noi cristiani. La Lettera di Giacomo lo dice molto bene: nonostante le turbolenze della vita, il cristiano è colui che deve mantenersi saldo nella gioia. Se credi che Cristo è risorto e che tu stesso risorgerai, quindi che la tua vita è eterna, come fai a non essere nella gioia? L’esempio di Chiara Corbella Petrillo, con il suo sorriso straordinario (la giovane mamma romana morta di tumore nel 2012, che ritardò le cure per far nascere suo figlio, ndr), per me è illuminante. I cristiani sono quelli che hanno una speranza talmente certa che, nonostante le difficoltà, i problemi, le malattie, rimangono nella gioia. Questo è il vero cristiano. Questo periodo storico è molto importante, è un tempo in cui davvero possiamo giocarci la nostra fede, la nostra vita, la nostra speranza. E’ una partita aperta, io non vedo tutto nero. Il cristiano, come dicono i gesuiti, è quello che tiene nella mano destra la Bibbia e nell’altra il giornale. Dobbiamo vivere in questo mondo, ma non siamo del mondo. Dobbiamo cercare di capire quello che sta succedendo, cercando le risposte nella Parola di Dio, dove ci sono sempre, anche a quello che stiamo vivendo. Ce la possiamo giocare bene questa partita. Possiamo dare un contributo di speranza e di luce: Gesù è il vivente, è vivo, non è morto, è risorto, è qui con noi, ci aiuta a sperare.