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Un'estate diversa/1: in Giordania, tra i profughi e i disperati

L'intensa esperienza di un gruppo di giovani veneti a Mafraq. Situata a pochi chilometri dal confine siriano, dallo scoppio della guerra ha visto triplicare la sua popolazione (da 80 mila a 210 mila abitanti!), perché porta d’ingresso in Giordania dei profughi siriani (quasi un milione ha trovato rifugio qui in 4 anni).

Al Mafraq (nord Giordania). Un campanile bianco con la croce latina tenta di farsi spazio tra i tetti piatti e i minareti di una caotica cittadina del nord della Giordania. Situata a pochi chilometri dal confine siriano, dallo scoppio della guerra ha visto triplicare la sua popolazione (da 80 mila a 210 mila abitanti!), perché porta d’ingresso in Giordania dei profughi siriani (quasi un milione ha trovato rifugio qui in 4 anni). A Treviso si discute di profughi, chi è il profugo “vero” che scappa dalla guerra o “falso” che scappa dalla povertà. Qui gli operatori della Caritas di Al Mafraq ci raccontano che nel 2014 hanno fatto i conti con 200 mila profughi “veri” a cui dare un bonus viveri, cure mediche, un aiuto per affitto. A 10 kilometri di distanza il campo profughi di Al Zaatari è una città di container in mezzo al deserto con 80 mila persone! I venti giovani veneti che con me e grazie alla Caritas giordana sono venuti qui ad immergersi in questa tragedia, sono scioccati. La realtà è tragicamente dura! Anna (25 anni): “Ho tentato di comprendere la forza che deve avere una donna incinta nello scappare senza più contare sull’aiuto del marito, ucciso da un colpo di un cecchino dell’esercito siriano, alla speranza che alcuni genitori hanno nel futuro dei loro figli martoriati da questa guerra che ha tolto loro la parola e l’udito, alla dolcezza che una donna trasmette al proprio figlio di pochi mesi dopo che le hanno torturato il marito davanti agli occhi, al coraggio di correre sopra le macerie e sotto lo bombe per cercare un luogo che possa ricordare quella sicurezza ormai dimenticata, e alla dignità che le famiglie profughe siriane si portano dietro come ombre nonostante siano state calpestate più volte da passi pesanti e opprimenti. Ho cercato di trovare questo senso nei loro occhi, speranzosi ma al contempo timorosi di scoprire se un domani ci sarà, nei loro gesti calorosi di accoglienza che riservano per l’ospite, anche se straniero e ignaro di tutto il loro passato, nei loro sorrisi profondi e sinceri che fanno dimenticare per un attimo cosa la vita ha riservato loro. Non ci sono riuscita. Non voglio riuscirci: significherebbe che ho compreso una certa utilità della guerra, che ho giustificato queste azioni violente. Non voglio capire, voglio solo ascoltare”. Elisa (23 anni): “Quello che più mi ha colpito delle visite alle famiglie di profughi siriani è la loro accoglienza, quella che loro definiscono come «arabic hospitality». Non volevo dare l’idea della turista curiosa, ma allo stesso tempo questo è ciò che sono: una giovane europea distante anni luce dalle tende sporche e soffocanti di Al Mafraq. Queste famiglie invece ci hanno accolto sorridenti, offrendoci del the e porgendoci i loro migliori cuscini. Hanno raccontato, ci hanno trascinato con loro in un’odissea di dolore e fatica.  Ci hanno insegnato a vedere il mondo e la nostra vita con occhi diversi”. Irene (23 anni): “Tutte le famiglie siriane sognano un difficile ritorno. C’è chi crede ancora nell’umanità e chi, per evitare la morte, rischia il tutto e per tutto passando un check point in 27 dentro un’auto a tutta velocità. Ringrazio di cuore le famiglie siriane per le loro testimonianze perché con la loro forza, il loro coraggio, la loro fantastica ospitalità trasmettono lezioni di vita: è proprio vero che per chi ha tutto l’essenziale è invisibile agli occhi”. 

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