sabato, 16 novembre 2024
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Renzi in cerca di alibi, l'affondo della Cisl trevigiana

Lorenzon: "Renzi ha intuito che non ci sono soluzioni facili e a portata di mano e per questo ha trovato molto più semplice e comodo individuare un capro espiatorio cui dare le colpe".

Non sono tra coloro che dell’articolo 18 hanno fatto un totem e se verrà cancellato me ne farò una ragione. D’altra parte ormai è chiaro che non stiamo più parlando di economia o di mercato del lavoro, ma semplicemente di un regolamento di conti all’interno della sinistra, cui partecipa, sconsideratamente, anche una parte del sindacato.

Eppure, c’è qualcosa di vecchio in questo scontro voluto da Renzi contro il sindacato (come se in Italia non ci fosse un pluralismo di idee e di comportamenti sindacali), che ha le sembianze dell’alibi di fronte alle difficoltà di dare risposte concrete alla questione del rilancio dell’economia e dell’occupazione.

Renzi ha intuito che non ci sono soluzioni facili e a portata di mano e per questo ha trovato molto più semplice e comodo individuare un capro espiatorio cui dare le colpe.

Ha affermato che mentre il sindacato si è attardato e si attarda a difendere le ideologie, lui si preoccuperebbe dei disoccupati e dei precari in carne ed ossa.

E’ un’accusa ingenerosa, perché il sindacato può anche non aver contrastato a sufficienza coloro che queste norme avevano scritto (i politici) o avevano applicato (gli imprenditori), ma per questo sarebbe colpevole di aver perso la battaglia, non di non averla fatta. Solo chi è in malafede può ritenere che i mancati diritti dei disoccupati e dei precari siano la conseguenza degli eccessivi diritti riconosciuti ai cosiddetti garantiti. Ne è prova il fatto che in questo periodo nessun lavoratore è stato preservato dal rischio della disoccupazione, della riduzione del salario e dell’aumento della precarietà.

La visione di Renzi è altresì incapace di cogliere il vero nodo della crisi del lavoro e della disoccupazione  italiana.

Il problema, infatti, non risiede nel lavoratore, ma nell’impresa: la crisi non è tanto la conseguenza della caduta della domanda (si consuma di meno), quanto della inadeguatezza dell’offerta (si producono merci che il mercato compra sempre meno).

Gli stessi 80 euro di sgravio fiscale concessi dal Governo – che sono serviti per lo più a pagare bollette e nuove tasse – rischiano comunque di essere un fuoco di paglia, perché se i cittadini italiani dovessero comperare (com’è facile presumere) prevalentemente merci prodotte all’estero, le nostre imprese andrebbero ancor più in crisi, l’attività produttiva verrebbe meno e con essa anche i posti di lavoro, gli stipendi e i consumi. Un bel circolo vizioso.

Sono, infatti, le imprese che devono investire in nuove produzioni di qualità, cosa che molte non hanno fatto (dall’inizio della crisi il 25% delle imprese manifatturiere italiane ha chiuso e più di un milione di lavoratori ha perso il posto), avendo preferito la speculazione finanziaria, la salvaguardia degli interessi famigliari e l’evasione fiscale.

Se la politica pensa che l’economia possa ripartire e imboccare la direzione giusta semplicemente dando alle imprese la possibilità di licenziare più di quanto abbia fatto finora, si sbaglia di grosso. E chiedere ai lavoratori più flessibilità di quanto non ne stiano già offrendo è praticamente impossibile, e in ogni caso sarebbe inutile, perché in qualche altra parte del mondo ci sarebbero comunque lavoratori più flessibili e disposti a un salario più basso, nonchè imprenditori pronti a spostare lì la produzione.

Di questo passo, non si rottama la vecchia classe politica o il vecchio sindacato; così si rottama l’Italia.

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