lunedì, 16 settembre 2024
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Rapporto Istat, Italia secondo Paese più vecchio del mondo

Il dato è di 168,7 anziani ogni 100 giovani al 1° gennaio 2018. A questa stessa data la stima della popolazione totale è di 60,5 milioni di residenti, in diminuzione per il terzo anno consecutivo, a colpi di 100mila in meno. Le nascite sono in calo da nove anni: nel 2017 sono state il 2% in meno dell'anno precedente e neanche fa più notizia (purtroppo) l'ennesimo minimo storico.

L’Italia che emerge dal Rapporto Annuale dell’Istat è un Paese che ha fatto uno sforzo enorme per uscire dalla crisi, che ha ottenuto qualche risultato non irrilevante, ma che non riesce a fare il salto che sarebbe necessario. Con il rischio che, in un futuro non lontano, i gravi problemi irrisolti non solo ci impediscano di andare avanti, ma ci riportino addirittura indietro: l’ulteriore aumento della popolazione in povertà assoluta nel 2017 (l’8,3% contro il 7,9% del 2016) è un segnale drammatico.

Il quadro economico complessivo dello scorso anno è quello di un’economia che cresce (ma sempre meno degli altri partner europei) con una modesta ripresa del mercato del lavoro, dei consumi (frenati da salari rimasti sostanzialmente al palo) e dell’inflazione. Gli indicatori disponibili per i primi mesi del 2018 “segnalano la prosecuzione del recupero della crescita dell’economia, pur se a ritmi moderati”. Troppo moderati e soprattutto non omogenei sul territorio nazionale. Se si prende l’indicatore della produttività del lavoro, per esempio, si verifica che a livello di sistemi locali (l’ultimo censimento ne ha individuati 611) il 17,5% ha valori superiori alla media e la quasi totalità di essi è al Centro-Nord. Fanno eccezione Ortona in Abruzzo e Brindisi in Puglia. All’estremo opposto, tra i sistemi con valori inferiori alla metà della media nazionale, le situazioni prevalenti sono in Calabria e in Sicilia. Qualcosa di analogo accade anche sul versante dell’occupazione. L’Istat parla di una “crescita sostenuta” anche nel 2017, con 265mila occupati in più, l’1,2%. Un dato positivo, indubbiamente. Sono quattro anni consecutivi che l’occupazione cresce.

Per tornare ai livelli del 2008, cioè di prima della crisi, manca ancora uno 0,7%. Può apparire poco, ma se si approfondiscono i dati la valutazione cambia.

A parte il fatto che siamo ancora lontani dalla media Ue, il che finisce per aumentare il differenziale con gli altri Paesi, l’occupazione si concentra nei contratti a termine (il triplo di quelli più stabili) e tra gli over 50 (l’aumento tra i giovani è minimo). Non solo. La distribuzione territoriale è del tutto sbilanciata, con il Mezzogiorno che non solo non partecipa al recupero ma continua a perdere terreno: il suo saldo occupazionale è -4,8%.

Il macigno più grande – ammesso che si possano fare classifiche di questo tipo – è quello dell’invecchiamento della popolazione. “Il nostro Paese è entrato in una fase di declino demografico”, certifica l’Istat. Lo si sapeva già, ma detto così autorevolmente fa ancora più effetto.

L’Italia è il secondo Paese più vecchio al mondo, con 168,7 anziani ogni 100 giovani al 1° gennaio 2018. A questa stessa data la stima della popolazione totale è di 60,5 milioni di residenti, in diminuzione per il terzo anno consecutivo, a colpi di 100mila in meno. Le nascite sono in calo da nove anni: nel 2017 sono state il 2% in meno dell’anno precedente e neanche fa più notizia (purtroppo) l’ennesimo minimo storico.

La popolazione straniera è sostanzialmente stabile, con 5,6 milioni di persone, pari all’8,4% del totale. A inizio 2018, il dato rispetto all’anno precedente era cresciuto soltanto di 18mila unità ed è dal 2016 che le variazioni annuali sono modeste. Altro che invasione, da tempo i cittadini stranieri non riescono più neanche a compensare il calo demografico dei cittadini italiani. Le immigrazioni dall’estero sono passate dai 527mila iscritti all’anagrafe del 2007 ai 337mila del 2017. Le migrazioni verso l’estero, invece, sono triplicate, passando da 51mila a 153mila. Per quanto riguarda le migrazioni interne, quelle dal Sud verso il Centro-Nord sono in diminuzione, da 132mila a 108mila, mentre è in netto aumento il numero di coloro che dalle regioni meridionali vanno direttamente all’estero, passati da 25mila a 42mila.

A fronte di questa situazione – che l’enciclopedico Rapporto Annuale descrive con una mole di dati frutto di un lavoro costante di rilevazione – l’Istat ha scelto una pista interpretativa che allo stesso tempo è anche una suggestione operativa, quella delle reti. Reti intese in tutte le accezioni possibili. “Nodi e relazioni tra persone, tra persone e attori sociali (imprese, istituzioni, gruppi formali e informali) e tra attori sociali”, precisa il Rapporto. “Quando sono presenti – questa è la tesi di fondo – le reti producono per lo più effetti positivi, soprattutto per chi ne fa parte; quando vengono a mancare, introducono disparità e disuguaglianze”. Reti da riconoscere e sostenere, come nel caso delle solidarietà familiari e interpersonali. Reti da promuovere e incentivare, per esempio nel mondo delle imprese. Reti da rammendare e anche da ricostruire, nel campo incerto – eppure decisivo – della politica.

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