venerdì, 25 aprile 2025
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Cinquant'anni fa l'alluvione

Il 4 novembre del 1966 interi paesi del nostro territorio furono sommersi a causa delle esondazioni dei fiumi. I danni maggiori si ebbero lungo il fiume Piave, con perdita di vite umane e distruzione di allevamenti e coltivazioni. Ancora oggi gli edifici a ridosso degli argini impediscono o rendono onerosi gli interventi di sovralzo e rafforzamento dell’argine. Senza interventi il rischio rimane.

Sono trascorsi 50 anni dall’alluvione del novembre del 1966. Piogge persistenti erano iniziate fin dal mese di ottobre, ma raggiunsero l’apice tra il 3 e 4 novembre. Furono colpite le regioni del Nord-Est (Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia) e del Centro (Toscana, Firenze in particolare dove i danni furono notevoli, e più limitatamente Emilia-Romagna e Umbria), con inondazioni e numerose frane. I morti furono 87, 6 a Bolzano, 26 a Trento, 26 a Belluno, 2 a Treviso, 3 a Venezia, 5 a Vicenza, 14 a Udine, 4 a Pordenone e 1 a Brescia, mentre gli sfollati furono oltre 42.000, di cui 25.800 in Veneto, 15.800 in Friuli-Venezia Giulia, 800 in Emilia-Romagna e oltre 400 in Trentino-Alto Adige. Ma altri dati danno l’idea della portata di questo dramma: in Pianura Padana e nella Pianura Veneta furono inondati oltre 137 chilometri quadrati di territorio e furono registrati danni in 209 Comuni. Solo in Provincia di Belluno furono danneggiati o distrutti 4.300 edifici, 528 ponti e 1.346 strade. A Venezia, il 4 novembre 1966 l’acqua alta raggiunse il livello record di 194 cm, ad oggi mai più eguagliato. Fu l’alluvione peggiore nelle Tre Venezie, anche considerando altri gravi eventi che si verificarono nel 1926, nel 1928 e solo un anno primo, nel 1965.
Dopo le tante piogge e lo scioglimento della neve a causa di un innalzamento improvviso delle temperature, il 4 novembre alle ore 22 il Piave in piena ruppe l’argine di sinistra a Negrisia, nella zona di Ponte di Piave; poi quello di destra a Sant’Andrea di Barbarana, località di San Biagio di Callalta, e a Zenson di Piave. Anche San Donà di Piave fu travolta dalle acque del suo fiume con l’allagamento del 90 per cento del territorio comunale.
Molti i volontari che si prodigarono in quelle ore per salvare vite umane. Il racconto dell’allora parroco di Caposile, don Armando Durighetto: “Verso sera, qualcuno mi telefonò dal municipio. Mi pregò di suonare le campane e di avvertire la popolazione di portarsi ai piani superiori delle abitazioni. Donne e bambini, vennero ricoverati provvisoriamente in asilo e nella cantina sociale. Di lì condotti a Jesolo, a sera inoltrata, con camion di fortuna, e alloggiati all’hotel Aquileia. Furono i primi sfollati. Circa trecento. Il giorno dopo ne seguiranno altri, alloggiati al Villaggio Marzotto, per un totale di millecinquecento persone provenienti da Caposile e Millepertiche. Gli uomini rimasero a custodire le case, ad accudire gli animali. Ma contro ogni previsione, l’acqua continuò a crescere in accelerazione impressionante. Raggiunse i due, i tre metri e più, fino ai secondi piani. Allora, uscii in barca con Gigio Perissotto a mettere in salvo gli uomini intrappolati nelle case. Era mezzanotte, navigavamo sopra i vigneti col «ciaro a carburo». Impressionanti, ci giunsero i lamenti lugubri, i muggii disperati delle bestie morenti legate alla greppia. Ne morirono 450. Un epilogo drammatico”. Il dramma, infatti, fu anche per l’economia del territorio, per allevamenti e coltivazioni andate distrutte.
Anche il Brenta e il Livenza strariparono, e ampie zone del Polesine furono sommerse. Da allora gli argini e le rive dei fiumi non hanno avuto una adeguata e continua manutenzione. Come anche la mancata costruzione di opere che sarebbero indispensabili e che non si fanno per l’opposizione di qualche comune o ente o associazione. E’ il caso dell’Idrovia Padova-Venezia, utile per il trasporto merci e per risolvere il problema delle alluvioni: si tratta di 27 chilometri per collegare tramite un canale navigabile Padova a Venezia. Il progetto fu avviato nel 1963 ma, nel 1981, quando mancavano solo 13 chilometri alla conclusione, fu bloccato. La Regione Veneto lo scorso anno ha stanziato 1 milione di euro per la realizzazione di un progetto preliminare di completamento dell’opera, ma siamo ancora distanti dalla conclusione.
Ecco allora che quando si verificano abbondanti piogge, subito l’attenzione si sposta sui corsi d’acqua del nostro territorio. Esondazioni e allagamenti fino ai centri abitati non sono, purtroppo, un ricordo lontano. 

Dove il Piave ha trovato spazio si è disteso, allargato, e ha intriso d’acqua tutto per metri in profondità; dove c’erano barriere, in quell’imbuto in cui si restringe da Ponte di Piave in poi, è stato come un gigantesco colpo di fucile ad aria compressa che ha fatto saltare argini, paratie, contrafforti e ha travolto tutto con l’energia accumulata. Tutto era cominciato con una bella giornata calda il 1° novembre 1966 che fa sciogliere la neve in montagna e finisce domenica 6 novembre con uno spettacolo di devastazione: bovini affogati, animali da cortile appollaiati ovunque, persone sui tetti e l’esercito italiano che piano piano porta soccorso.
Cinquant’anni fa, il Piave 7 metri sopra il livello di guardia e il mare che entra dalla laguna raggiungendo quasi due metri sopra il medio mare. Il Veneto meridionale diventa un grande lago, Verona si salva, ma il resto fin sopra ai paesetti dolomitici è tutta una sequela di distruzioni. Una lezione di idraulica terribile. Dopo un decennio di lavori si chiuse la Commissione De Marchi che dettò precise indicazioni su come gestire i bacini idrografici e propose di coordinare i piani di bacino con la pianificazione territoriale. Le sue indicazioni divennero legge nel 1989.
Tutto a posto dunque? Quell’evento non si ripeterà più? Le indicazioni di legge, seppur tardive, ci sono da più di vent’anni. “In realtà non è così - afferma il professore emerito dell’Università di Padova, Luigi de Deppo nella sua relazione intitolata «A 50 anni dalla grande alluvione» -. Chi doveva fare, in particolare Regione Veneto e Genio Civile, non ha fatto o non è riuscito a fare. Il Piave potrebbe ancora esondare drammaticamente. Il blocco di fatto della costruzione di nuove dighe dopo la tragedia del Vajont, la drastica riduzione degli interventi di manutenzione delle opere esistenti e degli alvei dei corsi d’acqua, e l’incremento dei coefficienti di deflusso per gli interventi realizzati sul territorio, hanno lasciato la pericolosità di buona parte dei corsi d’acqua veneti immutata nella migliore delle ipotesi, anzi si può dire che generalmente essa si è incrementata”. Del resto basta guardare l’alveo del Piave: piante che crescono ovunque, mancata rimozione delle piante abbattute, ghiaia non scavata e lasciata a fare da ostacolo al corso  del fiume, proliferazione di animali, in particolare le nutrie, che possono danneggiare gli argini. “La legge del 25 luglio 1904, che impedisce di mantenere vegetazione sugli argini ed al loro piede, è totalmente elusa: è solo un ricordo del passato quando al governo dei fiumi provvedevano le istituzioni statali. Dimenticata è la norma relativa alla costruzione di edifici in prossimità dei corpi arginali, che dovrebbero essere consentiti a distanza non inferiore a 10 metri dalla base dell’argine”.
Gli edifici a ridosso degli argini impediscono o rendono onerosissimi gli interventi di sovralzo e rafforzamento dell’argine. Sindaci, consiglieri, semplici cittadini appena sentono parlare di casse di colmata, di vasi di espansione, che per il Piave richiedono spazi notevolissimi, subito iniziano con petizioni, lotte, denunce per fermare la “devastazione” del territorio: ma se il Piave, non ha dove andare distrugge tutto senza badare a nulla.
“Gli interventi di difesa di un’area sono risultati via via sempre più difficili per le opposizioni delle popolazioni locali che, prese dalla sindrome di Nimby (not in my back yard, non nel mio cortile), non considerano l’interesse dell’intera collettività. Ovviamente l’aver demandato, con le Regioni, alla classe politica locale scelte che in passato erano prese dal governo centrale, non ha certo facilitato l’assunzione di taluni tipi di scelta. Opere fondamentali come la galleria - un fiume sotterraneo artificiale - AdigeGarda, tutta realizzata in provincia di Trento, in prossimità del confine con la provincia di Verona, e i cui benefici sono esclusivamente per i territori della regione Veneto, sarebbero attualmente difficilmente realizzabili per veti delle Amministrazioni locali”. L’ultima considerazione dell’ingegnere idraulico ha dell’incredibile. “Il passaggio alle Regioni dei corsi d’acqua ha comportato che alcuni fiumi abbiano le due sponde con competenze di due regioni diverse. In questi casi le due Regioni possono intervenire sugli argini senza un accordo, si può quindi verificare il caso che una Regione abbia sommità arginali maggiori di quelle dell’altra, scaricando l’eventuale piena sull’altra riva”.
 

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