Di per sé, l’idea di una “conversione missionaria” della parrocchia non è una novità, perché essa agita...
Giornalismo professione di speranza
“Se non vedi storie di chi spera contro ogni speranza, dovresti dire che andrà sempre peggio”. E, sotto sotto, cambiare mestiere. È forte, perfino strutturale, il rapporto di chi fa il giornalista e la speranza, tema di fondo del Giubileo 2025, secondo Nello Scavo, inviato di “Avvenire”, abituato a raccontare i conflitti in varie zone del mondo, prime tra tutte l’Ucraina e il Medio Oriente, autore di coraggiose inchieste e di numerosi libri, costretto a vivere sotto scorta per le minacce ricevute.
A lui abbiamo chiesto di approfondire il rapporto tra giornalismo e speranza, in un momento in cui l’opinione pubblica si è trovata a riflettere sull’importanza di una professione a volte pericolosa, eppure necessaria, in occasione dell’arresto in Iran della giornalista Cecilia Sala, liberata il 7 gennaio. Proprio da questo recente fatto, parte la nostra intervista.
Conosci Cecilia Sala? Che idea ti sei fatto della sua detenzione?
Sì, la conosco bene e con lei mi sono spesso confrontato. Cecilia Sala, dal punto di vista professionale, è una delle figure più interessanti di giovani giornalisti, che sanno coniugare il racconto in presa diretta, di ciò che avviene sul campo, e la capacità di analisi, approfondimento, investigazione. Al di là di alcune cose che si sono dette, non è certo una persona che se ne va in giro per il mondo, mossa da una concezione romantica della realtà, un’ingenua “travel blogger”. Anzi, possiede un metodo di lavoro tipico di una nuova generazione di cronisti, che ha molto da dire anche a noi, più “esperti”. Penso, da un lato, alla cura dei dettagli, alla capacità di raccontare la complessità senza semplificarla, con una giusta distanza dai fatti; dall’altro, a un approccio al mestiere in cui la persona non si mostra come un supereroe, ma con la sua fragilità; infine, l’uso di più tecnologie, dei video, dei podcast, e dei social. Gli strumenti che solitamente semplificano le realtà, vengono usati per spiegare la complessità. Insomma, persone con cui è bello lavorare insieme, confrontarsi, apprendere.
Non un’ingenua, quindi, una che “se l’è andata a cercare”...
Cecilia paga lo scotto di essere donna e di non lavorare per una testata affermata. Ma è una persona esperta, che ha fatto il giro del mondo e si è mossa bene. Parliamoci chiaro, gli iraniani non sono dei “fessi”, se l’hanno arrestata è perché hanno fatto i loro calcoli, hanno pensato al successivo negoziato. Hanno preso lei per il mezzo milione di follower su Instagram, per i podcast che continuava a produrre da lì. E lo hanno fatto in un momento molto difficile per il regime di quel Paese, alle prese con la dissidenza, con un contesto geopolitico difficile, dato che l’Iran esce con le “ossa rotte” dal cambio di regime in Siria.
E perché, comunque, è bene che ci siano giornalisti presenti, oggi, fisicamente, in Iran e in altre aree di crisi?
Per quanto riguarda l’Iran, si può essere molto concreti: nel 2023 l’export verso l’Iran è stato di 600 milioni di euro, da gennaio a settembre del 2024 c’è stato un calo, ma, comunque, il volume è stato di 270 milioni, contro i 424 dello stesso arco di tempo dell’anno precedente. Esportiamo macchinari apparecchiature, prodotti chimici... Anche solo considerando il vasto volume d’affari, ci dobbiamo interessare all’Iran, oppure no? Al di là di questo, io penso che bisognerebbe andare dappertutto, anche in Corea del Nord, dove non esportiamo legalmente neppure uno spillo. Ma dove ci sono Paesi con forti scambi commerciali, i giornalisti devono essere presenti. I cittadini hanno diritto di sapere con chi facciamo affari. Poi, naturalmente, ci sono anche motivazioni più nobili. Immaginiamo un mondo in cui i giornalisti non raccontano, di cui non si sa nulla. E’ quello che accade, appunto, in Corea del Nord. La qualità del giornalismo è un indicatore fondamentale per capire se viviamo in una democrazia.
Intanto, il primo evento dell’Anno Santo, a Roma, sarà il Giubileo dei comunicatori. Coincidenza suggestiva, non trovi?
La data coincide con la festa del patrono, san Francesco di Sales, ma, leggendo i testi di papa Francesco, preferisco pensare che non si tratti di una pura coincidenza. Purtroppo, non potrò esserci, ma si tratta di un appuntamento molto importante. Il Papa, in maniera non banale, ci dice di consumare le suole delle scarpe, ci invita a chinarci sulla realtà, a esercitare un vero e proprio giornalismo di prossimità, non un giornalismo “copia incolla”, come quello che, a volte, si fa nelle redazioni.
Si tratta, anche, di un’occasione per invitare a un giornalismo di speranza, così come il Papa, nei giorni scorsi, ha invitato a una “diplomazia della speranza”?
Sì, e dev’essere chiaro che fare “giornalismo della speranza” non è scrivere che le cose andranno meglio, un po’ come l’espressione “andrà tutto bene” che si usava durante la pandemia. Il giornalismo della speranza lo si esercita là dove le cose non vanno bene, con la capacità di scorgere, di fronte al male, mettendoci a rischio, storie, anche piccole, di riscatto, cambiamento, futuro. Penso che tra i giornalisti che vivono il Giubileo con questo spirito, ci possa stare anche Cecilia Sala, in quanto giovane rappresentante di un mondo che cambia in meglio e dev’essere ascoltato di più. In quanto professionista che ci mostra l’uso di strumenti nuovi e adatti. Penso al Giubileo come, anche, a un incontro tra diverse generazioni di giornalisti e comunicatori.
Nella tua esperienza di giornalista in scenari di conflitto, come riesci a raccontare la speranza?
I segni, le storie, sono moltissimi, altrimenti sarei già finito dallo psichiatra. Se non credi alla speranza, e non vedi storie di chi spera contro ogni speranza, devi concludere che andrà sempre peggio. Di situazioni, storie, frammenti di speranza ce ne sono tantissimi. Penso ai 449 bambini portati via dai russi e restituiti agli ucraini, grazie anche all’azione del cardinale Matteo Zuppi, inizialmente circondata da scetticismo. O a Volodymyr Sahaidak, sul quale ho scritto un recente libro, che a Kherson è stato chiamato “il salvatore dei bambini”. O ai volontari dell’Operazione Colomba, corpo nonviolento di pace che con la sua presenza in Ucraina arricchisce anche il dibattito del mondo pacifista. Penso, ancora, agli ebrei che fanno monitoraggio sui possibili crimini di guerra dell’esercito israeliano. Di recente, mi ha colpito l’incontro tra il vicario della Custodia di Terra Santa, padre Ibrahim Faltas, e Ahmed Al-Jolani, il leader della nuova Siria. Anche san Francesco parlò con il sultano. Dicono che fu un insuccesso, ma dopo secoli ancora se ne parla. Quando, per il mio lavoro, vado in mezzo ai miliziani, ai gruppi combattenti, tocco con mano il loro radicalismo, eppure mi dicono di avere nel cuore l’incontro tra papa Francesco e l’ayatollah sciita Al-Sistani, portavoce di un Islam politicamente meno declinato rispetto agli sciiti iraniani. Insomma, il giornalista è chiamato a cogliere i tanti piccoli segnali che vengono dalla storia, nelle sue pieghe, magari destinati a portare frutto con il tempo.
Torniamo a papa Francesco. Come è visto dai colleghi, credenti e non credenti? Che effetto suscitano i suoi messaggi di pace?
Molti colleghi stranieri, anche di grandi testate, come “Le monde” o il “Guardian”, sono molto toccati dal Papa, alcuni anche a livello intimo, rispetto al loro credo. Ma, più in generale, sono colpiti dalle analisi del Papa, spesso sbeffeggiate da sedicenti cattolici. È stato il primo a parlare di “terza guerra mondiale a pezzi”, e mi pare avesse ragione. Ora si è spinto avanti, ci sta avvertendo del rischio di una vera e propria guerra mondiale. Io lo prenderei molto sul serio, così come quando parla di questione climatica. Da giornalista, mi pongo la domanda: perché poteri molto forti sono così preoccupati di questo Papa, tanto da preparare dossier per screditarlo?