lunedì, 16 settembre 2024
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Caserma Serena: la discussa struttura raccontata dal "di dentro"

La testimonianza di Alì, richiedente asilo di 26 anni originario della Guinea e residente da quasi cinque anni nel centro. Le condizioni di vita difficili si sono aggravate durante la quarantena. Le speranze di un giovane che sogna un lavoro e una casa e nel frattempo svolge il servizio civile in un'associazione del territorio

L’ex caserma Serena, sul confine fra il Comune di Treviso e quello di Casier è salita alla ribalta delle cronache locali e nazionali per un focolaio di Covid 19 che ha contagiato quasi tutti i migranti ospiti della struttura.
L’enorme edificio adibito all’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo ha spesso fatto discutere proprio per le dimensioni e per un’impostazione volta a rinchiudere al suo interno numeri elevatissimi di persone che così faticano a costruire un progetto individuale di integrazione. Il centro si allontana dunque molto dal concetto di accoglienza diffusa in cui piccoli gruppi di persone vengono integrati nelle comunità locali.

I migranti nella struttura, provenienti da tanti Paesi differenti, sono costretti a una vita comunitaria e a una assidua promiscuità di spazi, dalle camere ai bagni agli ambienti dove consumare i pasti, tutto è condiviso. Non sorprende dunque che, una volta individuati i primi casi, non essendo stati isolati a dovere, il contagio sia dilagato fino ad arrivare a 257 persone positive, compresi 11 operatori, su circa 300 ospiti. Per fortuna tutti i casi sono stati asintomatici. Ora il focolaio è stato dichiarato chiuso, l’isolamento per i negativi al tampone è finito e solo 4 persone sono ancora positive e isolate.
Era il 12 luglio quando sono stati trovati i primi due positivi; il 30 giugno il numero è salito a 137, il 6 agosto erano 257. Da lì i tamponi successivi hanno iniziato a riscontrare una crescente e progressiva negativizzazione al virus. Con i contagiati tuttavia sono salite anche le tensioni, figlie non solo dell’isolamento, ma della frustrazione accumulata in anni di attesa per i documenti, con persone costrette a vivere in una struttura che assomiglia più a un carcere che a un centro di accoglienza. Il dibattito su questi ragazzi nel mese di agosto si è acceso. Alcuni problemi di ordine pubblico all’interno hanno inoltre alimentato le polemiche. Di parole se ne sono spese tante, ma i protagonisti hanno avuto difficoltà a far sentire la loro voce.

Alì (nome di fantasia ndr) ha voluto raccontarci la sua esperienza da richiedente asilo all’ex caserma. Lo incontriamo il primo settembre nella sede dell’associazione dove svolge il servizio civile da due anni, cinque ore tutte le mattine durante la settimana. E’ rientrato proprio quel giorno dopo “un mese e tre giorni di isolamento”. “Dal 28 luglio al 31 agosto – racconta –. Anche io sono risultato positivo a due tamponi, poi gli ultimi sei erano negativi. E’ stato tanto difficile rimanere chiusi lì, la tensione era alta. Gli ambienti sempre più in degrado a causa della scarsità di personale che aveva accesso alla struttura. Il presidente mi chiamava spesso per sapere come andava e per tranquillizzarmi. Non ho avuto sintomi, è da quando ero bambino che non mi ammalo, e di questo ringrazio Dio”.

Alì ha una storia complessa: è partito, a soli 20 anni, nel 2014, dal suo Paese di origine, la Guinea Conakry, per le difficoltà vissute nel suo Paese. Uno Stato formalmente democratico, ma in realtà divenuto un regime violento e incapace di risolvere gli enormi problemi, governato da Alpha Condé, uomo vicino agli ex coloni francesi che lo scorso marzo ha chiesto con un referendum di poter farsi eleggere presidente della Repubblica per altri due mandati di 6 anni ciascuno oltre ai 10 anni in cui ha già governato con disastrose conseguenze.
Alì ha lavorato per un anno in Niger e poi per un altro anno e tre mesi è stato rinchiuso in un carcere in Libia, un’esperienza durissima a cui si è aggiunto il dolore per la perdita del padre che è mancato proprio mentre il giovane era imprigionato. Un militare libico lo ha aiutato a fuggire, e lo ha fatto imbarcare per attraversare il Mediterraneo. Nel 2016 è arrivato in Sicilia e da lì è stato trasferito alle Serena:

“Sono alle Serena da quattro anni e otto mesi – ha continuato il giovane visibilmente provato dalla situazione – lì non si sta bene, è terribile, è come essere ancora in prigione, ci sono sempre problemi, non è facile vivere in una caserma per quattro anni e otto mesi – ripete scandendo il tempo con grande precisione – . Nella mia camera siamo in quattro a dormire, i bagni sono in comune.Quando sono arrivato c’erano più di 800 persone, ora siamo circa 300, durante la quarantena siamo rimasti tutti dentro, tutti insieme. Sono fuggito dal mio Paese perché c’erano problemi e sono arrivato qui senza trovare un minimo di pace e tranquillità, sono stanco e ho bisogno di aiuto. L’Italia è bella, ma dove vivo non lo è per niente”.
Alì attende ancora una risposta alla sua richiesta di documenti: “Siamo arrivati alla Cassazione, per ora la mia domanda è stata respinta, siamo all’ultima fase, non so cosa succederà, io vorrei solo un documento, un lavoro, uno qualsiasi, e andarmene dalla caserma, avere un posto mio dove vivere e un po’ di tranquillità”.

Oltre all’attività di servizio civile, durante la quale Alì ama mettersi a servizio degli altri per dare una mano, il ragazzo seguiva le lezioni di lingua italiana, che parla già molto bene. Con la pandemia purtroppo anche queste sono state sospese e per Alì è uno dei rammarichi più grandi, perché vorrebbe continuare a studiare e imparare sempre meglio la lingua del Paese che lo ospita: “Ho conosciuto tante persone qui - ha concluso - , vorrei sentirmi parte della società, integrarmi, quando svolgo il mio servizio e sono lontano dalla caserma sono tranquillo, voglio stare fuori il più possibile e soprattutto rendermi utile, non mi piace non fare niente. Spero anche tanto che a settembre riprenda la scuola”.

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