martedì, 19 novembre 2024
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Il dramma di morire oggi senza alcun conforto

Mio padre è “fortunatamente” morto lo scorso 18 ottobre. Adesso lo posso proprio dire. Non avrei mai pensato di arrivare a fare questa affermazione. Fosse morto ora sarebbe stato un numero, un numero che fa statistica, un aggiornamento di quella conta che si fa al mattino e alla sera. Sarebbe probabilmente morto da solo, in una stanza di ospedale, seguito a distanza di sicurezza da operatori certo professionali, ma oberati di lavoro e giustamente preoccupati di non essere contagiati dai contatti.

Mio padre è “fortunatamente” morto lo scorso 18 ottobre. Adesso lo posso proprio dire. Non avrei mai pensato di arrivare a fare questa affermazione. Perché ognuno di noi vorrebbe avere i genitori in vita il più a lungo possibile, magari con qualche acciacco, anche se difficile da sopportare, ma in vita.

Mio padre aveva 76 anni ed era una di quelle persone pluripatologiche. Se fosse morto in questo periodo sarebbe sicuramente morto “con coronavirus” (dato anche che il suo ultimo reparto visitato è stata la Geriatria di Treviso).

Soffriva di cuore, aveva problemi respiratori, dovuti anche a un tumore al polmone trattato e vinto, l’ipertensione e il diabete con cui conviveva da anni.

Fosse morto ora sarebbe stato un numero, un numero che fa statistica, un aggiornamento di quella conta che si fa al mattino e alla sera. Sarebbe probabilmente morto da solo, in una stanza di ospedale, seguito a distanza di sicurezza da operatori certo professionali, ma oberati di lavoro e giustamente preoccupati di non essere contagiati dai contatti. Sarebbe morto magari in quel reparto dove noi tre figli ci siamo sentiti dire da infermieri e medici, nell’ultimo ricovero avvenuto ad agosto, che sarebbe stato meglio a casa, perché il rischio di prendere altre infezioni in ospedale c’era, c’è e ci sarà sempre. E lui non si poteva permettere neppure un raffreddore.

Meglio a casa, appunto, accanto a noi figli, ai nipoti, a qualche amico. Seguito e curato dalle preziose infermiere e dalle dottoresse delle cure palliative dell’Ulss2 Marca Trevigiana, che ci avevano dato precise indicazioni su come accompagnarlo, anche medicalmente, all’ultimo respiro. Perché non sentisse dolore, perché lui, che era attaccato alla bombola di ossigeno per gran parte del giorno e della notte, non avesse la sensazione di sentirsi soffocare. “E’ una delle peggiori sofferenze che si possa provare”, mi disse una dottoressa. Sentirsi soffocare. Oggi le sue parole risuonano nella mia mente e mi vedo davanti le persone intubate, che non riescono a respirare senza una macchina che lo faccia per loro. E che non hanno accanto un famigliare che li sostenga, che strappi loro un sorriso, che offra loro uno sguardo amorevole.

L’ultimo giorno, quando la situazione si era fatta di ora in ora più grave, la dottoressa con cui ero più volte in contatto nell’arco delle giornate, mi disse: “Se voi figli ve la sentite, tenetelo a casa, per lui sarebbe il migliore regalo”. L’abbiamo fatto. E il regalo è stato davvero reciproco. Poterlo salutare, stringergli la mano, accarezzarlo e baciarlo, vedere che apriva gli occhi e sorrideva ogni volta che un famigliare entrava nella sua camera. Poter avere il conforto della preghiera e dell’unzione degli infermi per lui che viveva come un peso il non potersi più recare in chiesa alla domenica…

Infine, l’ultimo saluto con tutti i suoi amici, le tante persone conosciute nel corso di una vita molto impegnata nel sociale, persone che in quel momento hanno sollevato dal dolore anche noi famigliari. Poter contare sulle “condoglianze”, sulla partecipazione a un dolore e a un lutto che insieme si sopporta meglio.

Ecco, per tutto questo ora posso dire “Papà, per fortuna che sei morto prima di questo terribile coronavirus”. A chi muore oggi e ai suoi famigliari non è concesso nulla di tutto ciò. La morte si può e si deve accettare, fa parte della vita. La differenza la fa il modo. Caro coronavirus, questo non è il modo.

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