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Elie Wiesel, un testimone che non ci ha permesso di dimenticare

Si è spento la settimana scorsa a 87 anni lo scrittore, sopravvissuto alla Shoah, che ebbe il premio Nobel per la pace nel 1986. Spese la sua vita perché le nuove generazioni sapessero la verità

Si è spento a Boston, a 87 anni, uno dei grandi testimoni della Shoah, lo scrittore premio Nobel per la Pace Elie Wiesel. Era nato in Romania, a Sighetu Marmatiei, sui monti Carpazi, da una famiglia di credenti ebrei di lingua yiddish. Era uomo di grande cultura, la madre Sarah lo incoraggiò a studiare la Torah (i primi cinque libri della bibbia ebraica), il padre Shlomo gli trasmise un forte senso di umanità e lo sostenne nel conoscere la letteratura, imparare la lingua ebraica, tedesca, rumena e ungherese. Da adulto studiò e scrisse anche in francese e inglese.
Il 6 maggio 1944, quando Elie aveva solo 15 anni, le autorità ungheresi che collaboravano con il regime nazista diedero il permesso all’esercito tedesco di effettuare la deportazione degli ebrei dei ghetti di Sighet, dove egli viveva, ad Auschwitz-Birkenau. La famiglia di Elie fu sterminata. La nonna, la madre e una sorella già il primo giorno, il padre in seguito; solo due sorelle sopravvissero. Esiste una foto che lo ritrae nelle baracche del campo di Buchenwald insieme ad altri prigionieri al momento della liberazione.
La notte. Diversamente da Primo Levi, Elie non tornò dal campo di concentramento con l’impegno morale di raccontare quanto aveva vissuto assieme a milioni di persone. Per dieci anni fece altro.
Succedeva a molti sopravvissuti della Shoah, si scontravano con l’incredulità della gente, anche degli stessi ebrei che non avevano vissuto la deportazione e i campi di sterminio. Fu l’incontro con François Mauriac, il Premio Nobel per la letteratura del 1952, prima amico e poi consigliere, che lo convinse a scrivere. All’inizio trascrisse la sua esperienza in novecento pagine di memorie, poi ridusse quel testo in uno scritto sintetico, incisivo, asciutto: “La notte”. Nonostante l’amicizia con Muriac, il testo non trovò consensi. In Italia fu pubblicato con poco successo da Feltrinelli. Qualche anno dopo, i diritti furono comprati da Daniel Vogelmann, il libro fu tradotto in italiano e pubblicato con “la Giuntina”, casa editrice ebraica: il primo stampato e dopo 20 edizioni è ancora il più venduto.
“La notte” è il racconto di un quindicenne; non vi sono letture politiche, non si indugia in complesse descrizioni psicologiche, non si pretende di rileggere la storia. È la vicenda nuda e cruda di uomini che vogliono uccidere altri uomini, annullarli.
In una delle pagine più dure, Wiesel descrisse l’impiccagione di un bambino e di come ai presenti quella sembrasse l’uccisione di Dio. Elie non ebbe un rapporto facile con Dio negli anni a seguire. Ma attenzione a farne un paladino di chi non ci crede a motivo dell’esistenza del male. Wiesel disse e scrisse, dopo l’orrore dei campi di sterminio nazisti: «Molti si sono chiesti “dov’era Dio”. Io mi chiedo “dov’era l’uomo”».
La coerenza. Wiesel spese la sua vita perché le nuove generazioni sapessero della Shoah. Sapeva bene che l’uomo che dimentica i propri errori è condannato a ripeterli, continuamente.
Nel 1986 questo impegno gli venne riconosciuto con il Nobel per la pace. Nelle motivazioni si indicò che il premio era stato assegnato a «un messaggero per l’umanità», alla sua idea «di dignità ed espiazione».
Elie non scelse il ritorno personale, la fama, l’onore. Egli rifiutò di diventare presidente dello Stato di Israele e restituì la massima onorificenza Ungherese, popolo al quale apparteneva, perché alcuni politici magiari ebbero atteggiamenti tolleranti verso persone che obbedirono agli ordini di deportazione degli ebrei ungheresi nel 1944.
Possa Elie trovare finalmente quel Dio che aveva visto sconfitto, percosso, flagellato e ucciso. Come Elisa Springer scrisse: “Ho visto Dio, percosso e flagellato, sommerso dal fango, inginocchiato a scavare dei solchi profondi sulla terra, con le mani rivolte verso il cielo, che sorreggevano i pesanti mattoni dell’indifferenza. Poi... lo avevo smarrito, avvolto dal buio dell’odio e dell’indifferenza, dalla morte del mondo, dalla solitudine dell’uomo e dagli incubi della notte che scendeva su Auschwitz. Lo avevo smarrito... nella mia disperazione che cercava un pezzo di pane, coperta dagli insulti, le umiliazioni, gli sputi, resa invisibile dall’indifferenza, mentre mi aggiravo fra schiene ricurve e vite di morti senza memoria. Ho ritrovato Dio… mentre spingeva le mie paure al di là dei confini del male e mi restituiva alla vita, con una nuova speranza: io ero viva in quel mondo di morti. Dio era lì, che raccoglieva le mie miserie e sollevava il velo della mia oscurità. Era lì, immenso e sconfitto, davanti alle mie lacrime” (da “Il silenzio dei vivi”, Marsilio).

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