Indubbiamente, quello che ci appare nel racconto è un Gesù umano, compassionevole e misericordioso verso...
Dazi: “Reagan boccerebbe Trump”

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, con un annuncio molto mediatico, mercoledì 2 aprile ha comunicato il più grande aumento dei dazi sulle merci straniere da quasi un secolo, e, di fatto, ha aumentato le tasse ai consumatori americani. Prima di qualunque altra analisi, è utile chiarire un aspetto: i dazi rappresentano un trasferimento di ricchezza dal cittadino allo Stato, un aumento dei prezzi al consumatore che non arricchisce le imprese; i dazi sono, quindi, una tassa e come tutte le tasse e le imposte slegate da un’idea di progressività, molto probabilmente, finiscono per rivelarsi inique e vessatorie. Fatta l’ovvia premessa, i dazi proposti da Trump hanno il non trascurabile effetto di contrarre la domanda di beni, e quindi creano un danno anche a chi quei beni li produce e li esporta.
“C’è una tale integrazione produttiva, a valle e a monte, che rende ancora più difficile capire la decisione di Trump - riflette Mario Pomini, docente di Economia politica all’Università di Padova -. Il dazio al 25 per cento sulle automobili non è solo un problema per l’automobile finita, ma è anche un problema per i componenti di cui un’automobile è fatta”. I primi 900 licenziamenti di Stellantis sono avvenuti, infatti, negli Stati Uniti e riguardano personale impiegato nella produzione di componenti per gli stabilimenti della multinazionale che si trovano in Canada e Messico. “Per affrontare la congiuntura economica, attuale e futura, serve il «genio veneto», che nei secoli ci ha resi capaci di superare ogni difficoltà”, ha stigmatizzato il presidente del Veneto, Luca Zaia, a margine dell’apertura del Vinitaly. E se quella veronese è la più grande vetrina per il vino italiano e veneto, il valore dell’export vitivinicolo verso gli Stati Uniti è di circa 600 milioni di euro all’anno, a fronte di 1,2 miliardi di euro fatturati dagli strumenti e forniture mediche - compresi gli occhiali prodotti a Belluno - e di oltre 1,6 miliardi di euro delle produzioni industriali.
“Se l’aliquota sui beni europei sarà del 20 percento - chiarisce il docente padovano - possiamo stimare una riduzione dei ricavi, per le imprese europee, attorno a quella cifra. Il quadro dipende da tre fattori: se l’importatore americano deciderà di assorbire l’aumento dei prezzi, scaricarlo sul consumatore o chiedere all’impresa italiana esportatrice di ridurre i costi”.
Questo non vuol dire, però, che tutte le esportazioni subiranno lo stesso tipo di penalizzazione, perché non tutti i beni sono facilmente, né velocemente, sostituibili con degli equivalenti, ma questo non limiterà, in termini assoluti, gli impatti negativi sul mercato. “Tecnicamente, si dice che i beni hanno una diversa elasticità, cioè una diversa sensibilità al prezzo - spiega Pomini -. Ci sono prodotti, come la Ferrari, che vengono acquistati a prescindere, ma ce ne sono altri che sono molto sensibili agli aumenti. È il caso di quei beni che fanno parte del budget quotidiano delle famiglie”.
Il lusso, insomma, non risente di queste crisi o ne risente in misura minore e questo vale tanto per le produzioni industriali e manifatturiere quanto per quelle agricole: è ragionevole aspettarsi, insomma, che il mercato dei vini di pregio risenta diversamente dai dazi rispetto a quello delle bottiglie di fascia media e bassa.
Ma cosa può fare l’Europa a questo punto? “Di fronte a questi dazi che non sono giustificati, l’Europa non può far altro che introdurre essa stessa dei dazi, in modo tale da scoraggiare il competitore americano a proseguire - chiosa Pomini -. Nella retorica del deficit di Trump, c’è un grande buco: è vero che gli Stati Uniti hanno un grande deficit commerciale, ma hanno un grande avanzo nel settore dei servizi e lì potrebbe colpire l’Europa. Invece di tassare i prodotti agricoli americani, sarebbe più efficiente, dal punto di vista della risposta politica, tassare i giganti della tecnologia, della finanza e dei servizi assicurativi”.
A condizione, ovviamente, di farlo tutti insieme come Europa e non sperare di cavarsela muovendosi come singoli Paesi. Ciò che forse all’Amministrazione americana è sfuggito, ciò che hanno sottovalutato, non è solo l’impatto che una guerra dei dazi avrebbe avuto sulle borse mondiali, ma è che Ronald Reagan, quasi quarant’anni fa, aveva già spiegato i limiti di questo tipo di iniziative: “All’inizio, quando qualcuno dice «imponiamo dazi sulle importazioni estere», può sembrare un atto patriottico, per proteggere i prodotti e i posti di lavoro americani. E a volte, per un breve periodo, funziona, ma solo per poco. Quello che accade alla fine è che le industrie nazionali iniziano a contare sulla protezione del Governo sotto forma di dazi elevati. Smettono di competere, e smettono di innovare nella gestione e nella tecnologia, che sono invece essenziali per avere successo nei mercati globali”.