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Governo già a rischio

Di questo passo il Governo giallo rosso finirà con il cedere molto presto, forse Già nella primavera del prossimo anno, dopo che saranno digeriti i risultati, che si presumono negativi, delle elezioni regionali in Calabria (novembre – dicembre 2019) e perfino in Emilia Romagna (gennaio 2020).

11/11/2019

Di questo passo il Governo giallo rosso finirà con il cedere molto presto, forse Già nella primavera del prossimo anno, dopo che saranno digeriti i risultati, che si presumono negativi, delle elezioni regionali in Calabria (novembre – dicembre 2019) e perfino in Emilia Romagna (gennaio 2020).

L’esperimento fallimentare della rabberciata alleanza tra Pd e M5S in Umbria ha, infatti, indotto Luigi Di Maio ad archiviare frettolosamente ogni possibile altro sodalizio politico-elettorale con Nicola Zingaretti. Se le cose non cambieranno, in Emilia Romagna entrambi andranno alle urne ognuno per conto proprio, rendendo più probabile la vittoria del centrodestra. A quel punto, se il Pd dovesse perdere la regione “rossa” che governa da quasi cinquant’anni, salterebbe qualunque altra possibilità di alleanze politiche, sia locali che nazionali, tra Pd, M5S e Italia viva.

Zingaretti, uscito ormai dalla sua proverbiale prudenza, non perde occasione per ripetere che non è più disposto a sopportare bizze, continue critiche al Governo e ambiguità politiche da parte di Di Maio e Matteo Renzi. Di sicuro, non se la sente più di stare seduto sopra una faglia, in attesa che gli altri due alleati provochino la scossa finale. In ogni caso, dopo l’approvazione della Finanziaria, se Renzi farà uno dei suoi imprevedibili colpi di scena (pretendere il cambio del premier?) e se nel frattempo il M5S imploderà, il ricorso alle urne sarà inevitabile.

D’altra parte, un Governo nato al solo scopo di evitare elezioni anticipate, contrastare l’ascesa di Salvini e senza una discontinuità politica complessiva e coerente rispetto a quello precedente, non può durare a lungo.

A dire il vero, non ci è del tutto chiaro perché quell’astuto politico che è Renzi continui a provocare e a criticare il Governo e soprattutto Conte, specialmente ora sulla manovra economico finanziaria: bisogno di visibilità per non sprofondare nel dimenticatoio della politica? Far sentire il suo peso determinante per la maggioranza in Parlamento? Egli sa bene che rompere la corda con gli alleati significa andare al voto e, se questo avvenisse con l’attuale legge elettorale, il suo presunto 4-5% di consenso lo renderebbe, quanto a numero di parlamentari, poco rilevante per i futuri equilibri di un nuovo centrosinistra. E allora, che cosa bolle in pentola?

 

La crisi del M5S

Di Maio sta dimostrando i suoi limiti politici. Continuare a rappresentare il Movimento sia come forza di governo che di opposizione; disfare il giorno dopo ciò che aveva concordato con gli alleati la sera precedente; il voler non essere né di destra né di sinistra, sono ambiguità che non gli giovano affatto. Certamente tra i leader è quello che, dopo il tonfo avuto alle Elezioni europee e dopo il fallimento della strana alleanza con Salvini, ha i problemi più grossi da gestire. Forse non ha ancora capito che il giochino di piantare bandierine e declamare i propri meriti su certi risultati ottenuti stando al Governo, diversamente da quanto ancora accade per Salvini, non gli apporta ormai alcun beneficio elettorale: in Umbria non lo ha salvato dal naufragio nemmeno il tanto declamato reddito di cittadinanza grazie al quale, a suo dire, sarebbe stata sconfitta la povertà.

Si può anche convenire che non tutto dipenda dalla sua comunque non elevata caratura politica. Il Movimento, infatti, è profondamente diviso, pronto a spaccarsi da un momento all’altro. Il suo problema principale, però, non è tanto la conflittualità interna tra anima di destra e di sinistra. Ciò che agita le acque è piuttosto la sua profonda crisi di identità e di progettualità politica e, quindi, di idee.

Siamo forse di fronte ad un plateale caso in cui il potere sta logorando proprio chi lo detiene. Si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un Movimento “liquido”, senza un punto vero di coagulo. Lo stesso altalenarsi tra Salvini e Zingaretti; tra l’appoggiare una alleanza politica con il Pd per poi subito dopo affossarla; tra l’approvare la finanziaria e poi rimetterla l’indomani in discussione, sono chiari segni che a Di Maio mancano ancora una linea e un progetto politico chiari su cui puntare e rischiare nel medio periodo. Le divisioni interne poi fanno il resto, costringendolo a barcamenarsi tra una sponda e l’altra nel titanico tentativo di salvare la sua sempre più traballante leadership e il futuro del Movimento.

 

Il Pd e il recupero di identità

In questo bailamme si evidenzia anche la crisi di identità del Pd, iniziata molto prima che il suo ex segretario Renzi spostasse il baricentro del partito verso un centrismo liberista, consegnando la classe operaia e le periferie delle città nelle mani di Salvini e della Meloni.

Zingaretti non naviga certo in buone acque: oltre a cercare di rifondare il partito recuperando la sua anima di sinistra riformista (ammesso sia in grado di farlo) si trova, per il momento, a dover far fronte alla scissione di Renzi e a guardarsi dai “renziani” che sono stranamente rimasti nel partito e che ora sono venuti alla scoperto, costituendosi in corrente politica.

Se prima preferiva andare al voto piuttosto che allearsi con l’altalenante Di Maio il quale, oltretutto, non gli ha concesso alcuna sostanziale discontinuità rispetto al Governo precedente, ora, stanco dei tatticismi e delle furbizie degli alleati, sta forse pensando seriamente di staccare la spina al Governo, nella comprensibile speranza di poter disporre, dopo le elezioni, di un partito più coeso e con gruppi parlamentari più in sintonia con la Segreteria.

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